Tra finti tonti e tonti doc, quindi qualcuno perché non ci arriva e qualcun altro invece perché ci è arrivato fin troppo bene, il giochino è sempre lo stesso. E cioè trattare le tre vicende (la prima di origine “pubblica”, le altre due di genesi “privata”) del sottufficiale della Guardia di Finanza Striano, del bancario pugliese e ora della società milanese, come altrettante “violazioni della privacy”.
E così, tra fumisterie, oscurità tecniche, più il grande sport italiano del giro di parole, si induce il lettore o il telespettatore a ritenere che il problema sia lontano -complicato -inafferrabile.
Eh, no. Troppo poco e troppo comodo. Qua si tratta di concentrarsi sugli scopi di quelle violazioni. Altrimenti, se ci limitiamo al puro atto dell’intrusione in una serie di banche dati, rischiamo di non vedere il cuore della faccenda.
E allora chiamiamo le cose con il loro nome. Nei tre casi, naturalmente se le accuse saranno giudiziariamente provate, si dovrà parlare di “dossieraggio”, di “ricatto”, e ancora più appropriatamente di “attacco alla democrazia”, cioè di operazioni volte non solo ad acquisire abusivamente informazioni riservate, ma a usarle per colpire il malcapitato di turno, per ottenere un vantaggio economico, o soprattutto per determinare un ingentissimo danno politico.
Il caso Striano parla chiaro, nonostante le cortine fumogene. Centinaia di migliaia di accessi, concentrati su personalità di centrodestra, e con accelerazioni parossistiche in coincidenza con la formazione del governo Meloni (autunno 2022), raccontano una cosa sola: un chiaro tentativo di spezzare le gambe alla squadra “sgradita” già nei primi minuti della partita della nuova legislatura (...)