Non c'è dubbio che Belve sia una trasmissione che più di molte altra ha impattato sulla televisione italiana negli ultimi anni. Il programma di Francesca Fagnani è diventato un caso indiscutibile, non da oggi, visto che il fenomeno è sulla cresta dell'onda da almeno due stagioni e non si esclude che proprio con quella di quest'anno si avvierà verso un fisiologico calo di entusiasmo e attesa, nonostante gli ascolti della prima puntata di quest'anno ci dicano il contrario.
Spesso si crede che i fenomeni televisivi nascano da pura casualità, ma dissezionando Belve si possono individuare almeno tre ragioni che convogliano nell'obiettivo di rendere il programma un vero e proprio evento: uno che riguarda i protagonisti del mondo dello spettacolo, un altro ha a che fare con il mezzo, il terzo ha a che fare con il pubblico.
Nel primo caso Belve abbraccia perfettamente il "cattivismo" di questi tempi, la necessità dei protagonisti del mondo dello spettacolo, o della vita pubblica in generale, di raccontarsi senza filtri, in una nuova chiave che possa metterli al centro della nuova era geologica che il sistema dello spettacolo sta attraversando. Una chiave in cui le vulnerabilità, le debolezze, un pizzico di cattiveria come il titolo del programma sollecita, sono il propulsore delle interviste. Tutto questo in netta controtendenza con il tempo storico che ci siamo lasciati alle spalle, in cui i personaggi pubblici puntavano a coltivare un'immagine pulita, priva di sbavature, lontana dagli scandali.
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Il secondo elemento ha a che fare con il mezzo. Il programma di Rai2 è forse la sola traduzione televisiva del formato di maggiore successo di questo momento: il podcast. Non ci sono le cuffie da gamer tipiche del formato, non c'è una stanza silenziosa con l'ambiente accogliente, ma Belve prende dal linguaggio dei podcast l'essenza. Ne riproduce il contesto, il clima cui l'ospite guarda inizialmente con timore perché sa di doversi raccontare come non farebbe altrove, ma allo stesso tempo si lusinga di essere lì, cerca quella situazione per distinguersi, sentirsi al sicuro di poter dire tutto, di poter essere volgare senza essere accusato, di essere compreso, avere il giusto tempo, nel giusto luogo, per raccontarsi in modo profondo, magari mostrando un lato ignoto di sé fino a quel momento. Questa caratteristica, non a caso, rende il programma perfetto per la frammentazione, il meccanismo di parcellizzazione che favorisce la distribuzione sui social, agevolando così una visione da second screen, con lo spettatore pronto a reagire immediatamente a ciò che vede in Tv, prendendo parte all'evento con il commento.
Infine la terza questione, che riguarda appunto il pubblico: Belve fa gossip senza sporcarsi le mani. Il programma di Fagnani nobilita l'inciucio, la diceria, consente alla conduttrice di tornare su aneddoti del passato di una persona senza trovare la diffidenza di quest'ultima. Una modalità consolatoria una platea di spettatori appartenente a un target medio-alto, assetata di curiosità, ma al contempo restia all'idea di farlo sapere. Perché in fondo il pettegolezzo ha questa caratteristica, tocca chiunque ma non tutti sono pronti ad ammetterlo.
"L'avvenire è dei curiosi di professione", recitava la frase di un vecchio film che provo a ricordare ogni giorno. Scrivo di intrattenimento e televisione dal 2012, coltivando la speranza di riuscire a raccontare ciò che vediamo attraverso uno schermo, di qualunque dimensione sia. Renzo Arbore è il mio profeta.