Alla Cop29 di Baku tutto ancora può accadere sul fronte della finanza climatica. Al centro dei negoziati, da giorni, non c’è solo il Nuovo Obiettivo Collettivo Quantificato (New Collective Quantified Goal, NCQG) inteso come un numero, ma anche tutto il sistema di distribuzione delle risorse. Finora molti meccanismi non hanno funzionato. Il nuovo obiettivo, infatti, deve sostituire quello dei 100 miliardi di dollari che i Paesi ricchi avrebbero dovuto mobilitare ogni anno fino al 2020 (e poi fino al 2025).
Questo finanziamento è imposto dalla decisione del 2015 che ha adottato l’Accordo di Parigi, ma è stato raggiunto solo nel 2022 ed è comunque molto al di sotto delle necessità. Bilioni contro trilioni di dollari. A quanto debba ammontare il nuovo obiettivo, il quantum, lo stabiliranno i ministri nella seconda settimana di Cop, ma altrettanto importante, se non anche di più, è concordare la struttura e le regole del finanziamento. Su questo stanno discutendo i negoziatori. Si tratta di capire a quali Paesi andranno i fondi, chi pagherà e di che tipo di finanziamenti si parla.
Finora, infatti, la parte dei 100 miliardi arrivata a destinazione, è stata distribuita sotto forma di prestiti, alimentando quindi il debito di questi paesi. Si cerca, inoltre, di introdurre nuovi criteri per favorire una rendicontazione più trasparente dei fondi ed evitare che queste risorse vadano a progetti ad alta intensità di carbonio.
Quanto serve per gli investimenti sul clima – Ci sono diverse stime sul fabbisogno globale di finanza per il clima. Il terzo rapporto del Gruppo di esperti indipendenti di alto livello sulla finanza climatica, presentato alla Cop29 di Baku, spiega che servono 6.500 miliardi di dollari all’anno in media, fino al 2030 per raggiungere gli obiettivi climatici globali. Di questa cifra, 1.300 miliardi all’anno entro il 2035 servono per i paesi emergenti e in via di sviluppo (Cina a parte).
I negoziati, la prima bozza e il lavoro per un testo più agile – A Baku, i colloqui formali sulla finanza sarebbero dovuti partire sulla base di un documento curato da Egitto ed Australia e approvato a giugno scorso, “ma il gruppo dei G77 e Cina lo ha definito inaccettabile, perché più sbilanciato a favore dei Paesi ricchi e ha chiesto di ripartire dall’inizio”, racconta Eleonora Cogo, esperta senior Finanza internazionale di Ecco.
Una prima bozza di 33 pagine, anche se embrionale perché molto incompleta, sul Nuovo Obiettivo Collettivo Quantificato, è stata pubblicata il 13 novembre. Proprio il gruppo G77 più Cina, però, ha espresso il suo sostegno alla proposta di produrre un testo negoziale più agile che, tra l’altro, si occupasse della parte più “qualitativa” della finanza, ossia proprio quei meccanismi e quelle regole che consentiranno non solo di raggiungere l’obiettivo, ma anche di farlo senza commettere gli errori del passato. Questo lavoro ha prodotto proprio nelle ultime ore un testo di 25 pagine. Più breve, ma non certo agile. Che ora verrà analizzato nel dettaglio dai negoziatori.
Il quantum – Alla Cop si è molto discusso dell’ammontare della mobilitazione, ossia del quantum. Le ipotesi sul tavolo sono comunque inferiori rispetto alle esigenze. Dopo una prima ipotesi che si aggirava sulla cifra di un trilione di dollari all’anno (mille miliardi, ndr), negli ultimi giorni di negoziato pare che ci sia la volontà di arrivare a 1,3 trilioni di dollari all’anno entro il 2030, proposta sostenuta dal gruppo dei G77 più Cina.
Non è ancor chiaro se includerà anche il Fondo per l’adattamento e il Fondo per le perdite e i danni subiti a causa degli effetti dei cambiamenti climatici. Nel corso del dialogo per la ricostituzione di questo Fondo, solo pochi Paesi hanno annunciato nuove promesse per un totale di 38,1 milioni di dollari. Lontano, dunque, l’obiettivo dei 300 milioni di dollari all’anno. La Germania annuncerà il suo contributo la prossima settimana, mentre dall’Italia potrebbe arrivare qualche novità.
Ma sull’orizzonte temporale del goal collettivo c’è anche la possibilità di prevedere un obiettivo di lungo termine o dinamico, che cresca negli anni. Sembra, invece, cosa quasi certa che questo nuovo goal sarà “a cipolla”, formato da più strati: un cuore, nell’ordine delle centinaia di miliardi, fornito dai governi donatori. Si tratterebbe di una base solida di finanziamenti pubblici per i Paesi più vulnerabili, in gran parte attraverso le banche multilaterali di sviluppo e uno strato esterno, mobilitato dal settore privato, che permetta alla cifra totale di raggiungere l’ordine dei trilioni.
Il ruolo delle banche multilaterali di sviluppo – La Banca mondiale, insieme a 9 banche multilaterali di sviluppo ha annunciato un sostegno finanziario di 50 miliardi all’anno entro il 2030 (di cui 7 per l’adattamento) nei Paesi ad alto reddito e 120 miliardi di dollari all’anno entro il 2030 (di cui 42 per l’adattamento) nei Paesi a basso e medio reddito. A questi, si aggiungeranno oltre 65 miliardi dal settore privato, superando così i quasi 75 miliardi totali mobilitati collettivamente nel 2023 per i paesi a basso e medio reddito. Il gruppo di esperti di alto livello (Hleg), però, sostiene che le banche multilaterali di sviluppo dovrebbero triplicare i propri finanziamenti entro il 2030, e che potrebbero raggiungere i 480 miliardi di dollari senza influenzare i propri rating.
Chi (e quanto riceve) e chi paga – Nel corso della Cop sono arrivate le proposte dei Paesi che vogliono assicurarsi una parte di questo obiettivo: i paesi più poveri vorrebbero garantita una fetta di 220 miliardi all’anno e, di questi, ne chiedono 39 miliardi i piccoli Stati insulari, riuniti nel gruppo Aosis. Per quanto riguarda chi debba pagare, invece, da anni le proposte sul tavolo sono tre. I Paesi in via di sviluppo chiedono che quelli più ricchi finanzino tutto l’obiettivo, il Nord del mondo chiede, ed è la seconda ipotesi, che tra i finanziatori ci siano anche le economie emergenti come Arabia Saudita e Cina, considerata un Paese in via di sviluppo dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite.
La terza opzione è una via di mezzo. “È facile immaginare che la Cina possa essere disponibili sul fronte dei finanziamenti volontari, aggiunge Eleonora Cogo, molto meno che Pechino si assuma gli stessi obblighi, sotto la convenzione, che hanno i Paesi sviluppati”. Il principio, ribadito di recente anche da Papa Francesco, dovrebbe essere quello delle “responsabilità comuni ma differenziate e rispettive capacità” dei Paesi sviluppati. Dunque, non solo una questione di chi ha responsabilità attuali o storiche nelle emissioni, ma anche di chi può sostenere, più di altri, i Paesi più veri.
Le nuove regole per evitare gli errori del passato – Fondamentale, però, sarà capire di che tipo di finanziamenti si parla e introdurre delle regole che assicurino una maggiore trasparenza rispetto alla destinazione dei fondi. Un anno e mezzo fa nell’inchiesta della Reuters sui finanziamenti per il clima finiti a progetti che nulla avevano a che fare con il cambiamento climatico, come quelli legati a impianti fossili o all’apertura di gelaterie. Ci sono stati casi di Paesi, come Germania e Francia, che hanno dichiarato impegni per fondi poi non effettivamente elargiti. E poi c’è un annoso problema, più volte denunciato da Oxfam e altre organizzazioni: buona parte della finanza climatica arriva sotto forma di prestiti, a volte con tassi di interesse non favorevoli, che aggravano la crisi del debito in molti paesi in via di sviluppo. Si chiede che buona parte dei fondi venga erogata sotto forma di sovvenzioni o di prestiti a tassi di interesse più convenienti e con periodi di restituzione più lunghi.
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