Media & Regime
di F. Q. | 29 Ottobre 2024
Non torna indietro, perché la sua è una “decisione di principio”, come fece l’editore Eugene Meyer dal 1933 al 1946, un modo per far recuperare credibilità al giornale in un momento in cui cronisti e media sono al minimo nel grado di fiducia e reputazione. Jeff Bezos, proprietario di Amazon e del Washington Post, in un editoriale conferma la scelta di evitare sul giornale l’endorsement della candidata democratica, come accadeva ininterrottamente da 1976. Una scelta che, oltre a determinare le dimissioni di alcuni giornalisti ha provocato la fuga di 200mila abbonati (in tutto la testata ne ha 2,5 milioni, la maggior parte dei quali digitali). Un duro colpo per una testata che sta già affrontando serie difficoltà finanziarie e che è la terza per diffusione dopo il New York Times e il Wall Street Journal. Il patron di Amazon afferma che avrebbe voluto fare il cambiamento “prima di quanto abbiamo fatto, in un momento più lontano dalle elezioni e dalle emozioni che le circondano” e ammette che la mossa non ha avuto una “pianificazione adeguata” ma assicura che non è “una strategia intenzionale”. Bezos garantisce anche che non c’è stato “alcuno scambio”, anche in relazione alla coincidenza che Dave Limp, l’amministratore delegato di una delle sue aziende, Blue Origin, ha incontrato Trump il giorno dell’annuncio del Wp.
“Rinunciare all’endorsement è una scelta di principio, ed è quella giusta”, ha scritto Bezos nell’editoriale, spiegando che “gli endorsement presidenziali non servono a far pendere l’ago della bilancia di un’elezione. Nessun elettore indeciso in Pennsylvania dirà: “Scelgo in base all’endorsement del giornale A”. Nessuno. Ciò che gli endorsement presidenziali fanno è creare una percezione di parzialità. Una percezione di mancata indipendenza”. E ricorda Eugene Meyer, editore del Washington Post dal 1933 al 1946, che, dice, “la pensava allo stesso modo e aveva ragione. Di per sé, il rifiuto di appoggiare i candidati presidenziali non è sufficiente a farci avanzare di molto nella scala della fiducia, ma è un passo significativo nella giusta direzione”. Ammette il tempismo infelice della scelta, avvenuta a 12 giorni dal voto. “Avrei preferito che il cambiamento fosse avvenuto prima, in un momento più lontano dalle elezioni e dalle emozioni che le hanno accompagnate. Si è trattato di una pianificazione inadeguata e non di una strategia intenzionale”. Bezos risponde anche a chi lo accusava di non parteggiare per Harris per non perdere contratti federali in vista della vittoria di Trump.
“Vorrei anche chiarire – prosegue l’editore del Washington Post – che non c’è alcun tipo di contropartita. Nessuna delle due campagne, nessuno dei due candidati sono stati consultati o informati a qualsiasi livello o in qualsiasi modo di questa decisione. È stata presa interamente a livello interno. Dave Limp, l’amministratore delegato di una delle mie società, Blue Origin, ha incontrato l’ex presidente Donald Trump il giorno del nostro annuncio. Ho fatto un sospiro quando ne sono venuto a conoscenza, perché sapevo che avrebbe fomentato coloro che volevano inquadrare questa decisione in qualcosa di diverso da una scelta di principio. Ma il fatto è che non sapevo dell’incontro in anticipo. Né lo sapeva Limp; la riunione è stata fissata in tempi brevi quella mattina”. Quindi, prosegue, “non c’è alcun collegamento con la nostra scelta sugli endorsement alle presidenziali, e qualsiasi suggerimento contrario è falso”. “Potete considerare la mia ricchezza e i miei interessi commerciali come un baluardo contro le intimidazioni, oppure potete vederli come una rete di interessi conflittuali. Solo i miei principi possono far pendere la bilancia da una parte all’altra. Vi assicuro che le mie opinioni qui sono, in effetti, basate su principi, e credo che i miei precedenti come proprietario del Post dal 2013 lo confermino. Naturalmente siete liberi di fare la vostra scelta, ma vi sfido a trovare un solo caso in questi 11 anni in cui io abbia prevalso su qualcuno del Post a favore dei miei interessi. Non è mai successo”, prosegue Bezos.
Riprendendo poi il discorso con cui apre l’editoriale sul crollo di fiducia nei confronti dei media alla crisi dei media, Bezos sottolinea che “la mancanza di attendibilità non è un’esclusiva del Post” e il problema non riguarda solo i media, ma “la nazione”: “Molte persone si rivolgono a podcast non ufficiali, a post imprecisi sui social media e ad altre fonti di notizie non verificate, che possono rapidamente diffondere disinformazione e allargare le divisioni. Il Washington Post e il New York Times fanno incetta di premi, ma sempre più spesso parliamo solo con una certa élite. Sempre più spesso parliamo a noi stessi”. “Se da un lato – conclude poi – non voglio promuovere e non promuoverò il mio interesse personale, dall’altro non permetterò che questo giornale vada avanti con il pilota automatico e svanisca nell’irrilevanza – superato da podcast non studiati e da battute sui social media – non senza lottare. È troppo importante. La posta in gioco è troppo alta. Ora più che mai il mondo ha bisogno di una voce credibile, affidabile e indipendente”.
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“Ecco come Trump vuole trattare la stampa libera”: l’addio al Washington Post dopo il “bavaglio” di Bezos