L'Orlando penoso è arrivato al capolinea: il peso delle manette sulla sua (brutta) fine

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Francesco Specchia 29 ottobre 2024

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Andrea Orlando possiede una dote innaturale. Non da primo, né da secondo, forse da terzo (o quarto) della classe riesce sempre, come nulla fosse, in punta di piedi, ad incunearsi nei vertici delle istituzioni. Forse, in tema di leadership (molto) sommersa, solo Gentiloni gli è superiore. Stavolta è toccato alla Presidenza della Liguria. Non ce l’ha fatta, dopo un forsennato testa a testa con Marco Bucci, 48,8% contro 47,3%.

Ma non è quello il punto. Soltanto lo scorso 25 ottobre dopo i caleidoscopici interventi dei leader nazionali del “campo largo” (Bonelli, Bonetti, Conte, Fratoianni, Schlein: tutti tracimanti e trascinanti) le circa 1.100 persone presenti al teatro Politeama Genovese per la chiusura della campagna elettorale si sono rese conto, all’improvviso, che il candidato governatore era Orlando. L’Orlando più sussiegoso che furioso, talora un po’ penoso. L’Orlando, il quarto da sinistra imbucato nella foto di gruppo del centrosinistra. Quello che articolava con dovizia tecnica il programmone elettorale costruito, in pratica, su un unico punto: «Vogliamo vincere perché vogliamo impedire il terzo mandato di Toti» anche se il candidato del centrodestra era Bucci; ma, insomma, l’importante è fare di tutta l’erba un fascio, inteso sempre naturalmente nel senso Pd del fascio littorio. Occhio, Orlando non è un bischero.

LA VECCHIA “DITTA”
Anche quando nel 2017 si candidò alla segreteria del Pd rimanendo schiacciato tra Renzi e Emiliano, be’, gli riuscì ugualmente di diventare ancora ministro per ben due volte – della Giustizia con Gentiloni e del lavoro con Draghi- dopo esserlo stato altre due proprio con Renzi e Letta. Orlando era sgusciato via perfino dall’abbraccio mortale di Elly Schlein che l’avrebbe volentieri disinnescato nell’esilio dell’Europarlamento, candidandolo nella circoscrizione nord-ovest; invece lui si è piazzato in pole position per la Presidenza della Regione, tomo tomo cacchio cacchio, mentre tutti erano girati dall’altra parte.
Dal punto di vista biografico Orlando è uno del gruppo della vecchia “ditta”, bravo ragazzo, «ex metronotte, commesso, camallo» senza averne le phisique; ma personalità flessibile non alla De Gaulle, diciamo. Se fosse un colore non sarebbe il grigio come, appunto, Gentiloni appunto, ma il beige.

Induce a qualche riflessione il fatto che perfino Orlando, spezzino d’origine partenopea, classe ’69, sempiterna riserva della Repubblica e asso nel manicotto di tutti i Pd possibili, avesse dichiarato qualche giorno fa: «Vogliamo una Liguria inclusiva, che non discrimini. Non c’è prosperità se non è condivisa, la povertà non è una colpa ma un fallimento di tutta la società e non possiamo accettare che ci siano bambini poveri. Non è più accettabile un’idea della società organizzata attorno al patriarcato. E non accetteremo il razzismo» (non che l’avversario Bucci la pensasse diversamente...). La prima riflessione è che Orlando risulta ancora in grado di rendere il luogo comune fiammeggiante materia elettorale.

La seconda è che l’uomo, un tempo sostenitore della fine naturale della legislatura e propugnatore di un’eterna «assemblea programmatica del Pd», resta sempre fedele alle parole del segretario Pd, in questo caso le schleiniane «inclusivo» e «patriarcato». Oddio, vero è che tra ex comunisti la fedeltà è una coazione a ripetere: prima Orlando era stato fedele ai Giovani Turchi; e prima ancora a Letta, e prima di Letta, a Franceschini e a Veltroni (di entrambi fu portavoce); e, nella notte dei tempi, a Fassino e ai miglioristi Napolitano, Macaluso, finanche Sposetti con cui passava le notti romane a sospirare –lo ribadiamo- su un glorioso passato che non aveva vissuto. Ora, a suo modo, è fedele alla Schlein che ha capito il tipo, ma se lo preserva con tenero rispetto. Perché, in fondo, Orlando è una delle tante coperte di Linus della vecchia guardia del Nazareno. Forse la coperta meno sgualcita.

Per esempio, l’ex ministro è un maestro nel trattare, negoziare, immergere le mani nella malta e nella palta della politica (da consigliere, responsabile dell’organizzazione di partito, deputato, ministro); nell’utilizzare il «lei» nei rapporti e i «vedremo» nelle strategie. In una parola: insuperabile nel vivacchiare sempre sotto la tempesta. Guardasigilli senza laurea - maturità scientifica ma senza cruccio, anche quando infila qualche gaffe tipo «il reato non è applicabile» – Orlando, da ministro della Giustizia, era pure partito benino.

TEMPI DI RIFORME
Sul Foglio scrisse una tenace bozza di riforma garantista sintetizzata nel depotenziamento delle correnti del Csm, nel processo breve e nella fine dell’obbligatorietà dell’azione penale. Più o meno quello che professa il suo successore Carlo Nordio; il quale però, oggi, viene trattato proprio da Orlando come una sorta di dottor Guillotin. A quei tempi - bisogna ammetterlo- l’idea orlandesca di riforma provocò un brivido blu nell’emiciclo berlusconiano. Poi i magistrati tuonarono il loro dissenso e la rivoluzione rimase a galleggiare tra i buoni propositi. Certo, per l’«immane sforzo di umanizzare le carceri» Orlando incassò i complimenti di Papa Francesco. E tese anche la mano agli ultimi craxiani quando, nell’anniversario della morte di Bettino, indicò l’ex leader «una figura importante della Sinistra». Oggi Orlando ha perso, nonostante una campagna elettorale funestata a destra e sostenuta a sinistra dai processi. Ha fallito. E con lui, in Liguria, tutto il campo largo trasformatosi in campo d’Agramante. Chissà se riuscirà a risorgere ancora una volta...

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