Dopo 19 mesi consecutivi di calo della produzione le domande sorgono spontanee: dove sta andando l’industria italiana? È una lunga fase di crisi come ce ne sono state in passato, o qualcosa di peggio? A scendere, inevitabilmente, è pure il fatturato. E vanno male anche gli ordinativi, elemento che proietta ombre anche sui mesi a venire. A resistere sono invece, almeno per ora, l’export e l’occupazione.
I dati dell’auto sono drammatici. Stellantis, l’unico produttore presente in Italia, accusa cali delle vendite a doppia cifra e quasi tutti i siti italiani funzionano ormai a singhiozzo con un ampio ricorso alla cassa integrazione. Ma in profondo rosso sono pure la meccanica, settore di punta della nostra industria italiana o l’abbigliamento e, per la prima volta, la crisi piega anche il lusso. La fase di sofferenza non è esclusiva prerogativa dell’industria italiana, questo va detto. Tuttavia qui il “mal comune, mezzo gaudio” non funziona, anzi, è vero il contrario.
Il cuore industriale dell’Europa, la Germania, è in difficoltà (e la Francia non sta meglio). La manifattura qui vale ancora il 20% dell’economia, il doppio rispetto agli Stati Uniti. Stretta tra una crisi di competitività, innescata dall’aumento dei costi dell’energia provocato dallo stop al gas russo a basso costo, e difficoltà più strutturali, Berlino, fedele ai principi del rigore nei conti pubblici, non può neppure varare grandi piani di sostegno come fatto, ad esempio, negli Stati Uniti.
La Cina, oltre a mercato di sbocco, è diventata temibile concorrente in molti settori, a cominciare dall’auto dove la Germania paga un grave ritardo nelle produzioni elettriche. Infine, Berlino, è storicamente molto legata alla Russia e molto presente sui mercati cinesi, patisce quindi in modo particolare “la chiamata” degli Stati Uniti. Quello che è stato battezzato “friendshoring”, ovvero il fare commerci e affari con la sola sfera di paesi considerati amici. Dire Germania significa però dire anche Nord Italia, il cui tessuto industriale è fortemente integrato con le filiere tedesche. Inevitabile che le ripercussioni si facciano sentire.
“La Germania arriva a questa crisi mentre attraversava già una fase di transizione, quindi in un momento di maggiore vulnerabilità”, ci spiega Alessandra Lanza, senior partner del gruppo di consulenza Prometeia. “In Italia la base industriale sta meglio, è più sana e più capitalizzata, con tanta liquidità a disposizione”, aggiunge. Detto ciò, sottolinea Lanza, è indubbio che tutta l’Europa sia alle prese con e con la necessità di colmare ritardi accumulati negli ultimi anni. In Europa “certe partite ormai sono perse ed è inutile inseguirle. Quello che si può fare è organizzarsi per sfruttare meglio le prossime ondate di innovazione”, osserva.
“Il Vecchio Continente è quasi assente dall’Intelligenza Artificiale generativa che modificherà profondamente il modo di fare impresa. Si tratta di una trasformazione radicale che ‘chiama’ chip ed elementi di base, altri ambito in cui siamo poco presenti”, dice l’economista. Per Lanza “manca ed è mancato uno sguardo lungo, non sui prossimi due anni ma sui futuri venti. Le transizioni green e digitale vanno nella giusta direzione ma abbiamo visto più regolamentazione che politica industriale. E, come se non bastasse, una regolamentazione caratterizzata da un’incertezza delle regole. Gli imprenditori non investono, e questo certamente non va bene, ma dipende anche dalle incertezze del contesto in cui operano, attendono di capire”.
A livello europeo Fedele De Novellis, economista di Ref Ricerche, rimarca pure il ruolo avuto sinora dalla Banca centrale europea. “La domanda è stata frenata anche da tassi elevati. La Bce ha seguito la Federal Reserve ma l’economia europea non era caratterizzata dalle stesse dinamiche, a cominciare dalla natura delle pressioni inflazionistiche. I tassi alti hanno rinforzato l’euro nei confronti delle valute asiatiche, rendendo meno competitivi in termini di prezzi i prodotti europei, già penalizzati dai rincari dei costi energetici”. Si calcola che per l’area euro il tasso neutrale reale sia pari allo 0%, si capisce quindi come l’attuale 3,25% risulti ancora molto restrittivo.
E poi c’è la Cina che “dopo lo stand by del Covid è tornata sui mercati in modo più forte delle attese e con un upgrade nei settori tecnologicamente avanzati”. In Europa pesa inoltre il fattore energia. È vero che le rinnovabili crescono ma i prezzi continua a farli il gas, utilizzato dai cosiddetti produttori marginali. Le quotazioni non sono più sui valori stratosferici dell’autunno 2022 ma rimangono circa doppie rispetto alla media storica. “In prospettiva chi riuscirà a ridurre maggiormente la dipendenza dal gas sarà avvantaggiato. Purtroppo, da questo punto di vista, l’Italia non è ben messa” sottolinea De Novellis.
Al di là delle variabili macroeconomiche, sono in opera tendenze di lungo termine che stanno rimodellando gli stili di consumo con impatti sulla produzione. “Per molti beni durevoli assistiamo ad un passaggio dal prodotto al servizio e ad altre trasformazioni che riducono la domanda”, osserva Lanza. “Prendiamo il caso dell’auto. I giovani si spostano dal possesso al servizio e questo riduce la quantità di vetture richieste sul mercato. Il calo demografico, inoltre, fa si che i potenziali acquirenti diminuiscano. Si va insomma verso quella che viene definita economia di circolarità, meno pezzi, meno capacità produttiva ma più servizi alla clientela”. Anche De Novellis si focalizza su alcune evoluzioni dei consumi. “Le preferenze stanno cambiando, si va verso consumi che possiamo definire esperienziali, a cominciare dai viaggi. Prendiamo l’auto che una volta era lo status symbol per eccellenza. Oggi tra i giovani non è più così, anche perché costano troppo ma non è solo questo”.
Tra i fattori più specificatamente italiani va annoverata la debolezza dei redditi e del potere d’acquisto delle famiglie. “Le spese delle famiglie sono ormai in larga parte assorbite dai consumi obbligati, gli alimentari, le bollette, qualche ricambio nell’abbigliamento, per tutto il resto rimane poco”, ci dice Lanza. “Persino il lusso che di solito resiste meglio alle fasi di crisi è in forte difficoltà”.
Commentando gli ultimi brutti dati del comparto, Diego Andreis, vicepresidente di Federmeccanica, ha detto che “non c’è altra via che puntare sulla competitività: da un lato abbassando i costi e dall’altro incentivando gli investimenti in ricerca, sviluppo e innovazione”. Competitività non è però necessariamente produttività e qualità delle produzioni. Può semplicemente significare rendere più convenienti sui mercati i beni fatti qui. Ma quali costi si possono ancora abbattere? Non quelli energetici, sicuramente non nel breve periodo. Rimane quello del lavoro ma gli stipendi italiani sono già tra i più bassi d’Europa e tra quelli più penalizzati dall’inflazione. L’innovazione è la strada maestra ma i risultati non si ottengono subito e le imprese italiane si contraddistinguono storicamente per una spesa in ricerca e sviluppo bassa se confrontata con quella dei concorrenti di altri paesi.
Ci soccorre un suggerimento di Lanza: “Dovremmo guardare ad un paese che per molti aspetti ci assomiglia, ovvero il Giappone, con una popolazione anziana e molto indebitato. Eppure da tanti anni gli investimenti in ricerca e sviluppo sono oltre il triplo in rapporto al Pil rispetto ai nostri. Questo permette al paese forse di non guidare le ondate di innovazione ma di posizionarsi in modo da raccoglierne i benefici”.
Uno sguardo al futuro – In un quadro indubbiamente fosco ci sono anche alcuni elementi di positività. Nonostante tutto l’occupazione, per ora, resiste. “Perché c’è un problema sul fronte dell’offerta, legato, ancora, alla demografia. Le aziende faticano a trovare tutto il personale di cui hanno bisogno e sono sottodimensionate”, ricorda Lanza. Tuttavia, secondo De Novellis, è possibile che nei prossimi mesi anche questi dati registreranno quanto meno una frenata.
Lanza ricorda però come l’entrata a regime di Industria 5.0 (piano per supportare e traghettare il passaggio dei processi produttivi a un modello energetico efficiente, ndr) dovrebbe iniziare a tradursi in benefici tangibili nel corso del 2025. De Novellis osserva che i prezzi delle materie prime stiano scendendo e la Cina continua ad “esportare deflazione”. Ciò rende plausibile il ritorno ad una situazione di inflazione prossima molto bassa, che darebbe un po’ di respiro alle famiglie e maggiori margini alla Bce per abbassare ancora il costo del denaro. “Inoltre, dice l’economista di Ref, le aziende iniziano a capire che devono tornare ad attuare sconti e promozioni per sollecitare la domanda”. Tra i fattori di criticità, viceversa, il venir meno del superbonus che avrà impatto sulle costruzioni e su tutte le produzioni collegate.