Il CERN è scienza, ma sembra fantascienza. Una permanente e gigantesca mostra nel luogo dove si studia l’infinitamente piccolo, mentre, poco lontano, ancora vagano le molecole "dell’unica divinità non inventata dall’uomo"
"Le particelle non le vedremo ma sono emozionata, voglio vedere come le studiano". È stata Nina Lu, mia figlia dodicenne, a convincermi a venire al CERN, a Ginevra, e non che ci fosse bisogno di convincermi, appassionati entrambi di scienza, più che altro a convincermi a viaggiare, perché odio perfino uscire di casa da diversi anni, mi sono messo agli autoarresti domiciliari (del lockdown neppure mi accorsi, come non mi accorgerei se mi mettessero agli arresti domiciliari). Così, insieme alla mia compagna Maria Sole, abbiamo preso un volo per Ginevra e ci siamo inoltrati al CERN (tra l’altro: ingresso gratuito, e per i turisti mezzi pubblici gratuiti, anche se poi se prendi un caffè costa 6 euro, ma gli svizzeri sono ricchi).
Meraviglioso luogo fondamentale per tutta la fisica moderna, ovviamente nel tunnel di 27 km che gira intorno a Ginevra, cento metri sotto terra, LHC, non puoi andare, ma al CERN vedi tutto e ci passi una giornata, è scienza ma sembra fantascienza, come essere dentro Star Trek, dentro una gigantesca Enterprise.
È come una permanente e gigantesca mostra nel luogo dove si studia l’infinitamente piccolo, e si gira per ore tra installazioni didattiche, esperimenti, lezioni, pezzi dell’acceleratore, per comprendere come si è arrivati a far collidere protoni, elettroni, muoni, leptoni, per trovare nuove particelle come il bosone di Higgs (teorizzato da Peter Higgs cinquant’anni fa, meno male ha fatto in tempo a prendere il Nobel), il campo che dà massa a ogni particella, e arrivare a capire l’origine dell’universo, prima ancora che ci fossero particelle e atomi, insomma il Big Bang.
Si chiama Big Bang Café anche il ristorante, una specie di Mac Donald’s spaziale, solo che quando sei lì ormai vedi particelle ovunque, ti senti attraversato da miliardi di neutrini ogni secondo che arrivano dallo spazio, e pensi che ogni atomo che compone le molecole di cui siamo fatti ha miliardi di anni, e sono sempre gli stessi, ecco perché siamo polvere di stelle. Gli astrofisici sono entusiasti di questo, io penso sempre che non abbiamo avuto un bell’inizio, e non avremo una bella fine, come d’altra parte nelle nostre singole vita, ma tanto si sa: sia per i letterati che per gli scienziati sono un «nichilista» (ma almeno gli scienziati mi danno ragione sulle mie ragioni). Penso all’infinito di Leopardi, lui sì che aveva capito che «tutto è nulla, solido nulla», e l’universo è gigantesco ma non proprio finito, siamo noi a essere finiti prima ancora di iniziare, perché cosa sono le nostre vite in questa materia che si espande per decine di miliardi di anni luce da quattordici miliardi di anni. Mando storie del CERN ai miei migliori amici Zyo e Shelly (lei però non gradisce, chimica inorganica che lavora a Edimburgo ma figlia di due astrofisici è allergica a tutto ciò che va sotto l’atomo, le hanno fatto una testa come la Stazione Spaziale Internazionale fin da piccola). Non pubblico storie su Instagram perché prendo in giro sempre l’altro mio migliore amico, il geniale direttore di Radio Rock Emilio Pappagallo: quando viaggia pubblica le stesse storie su Instagram che pubblicherebbe Elisabetta Canalis o Cristina Marino, malgrado sia così intelligente che può permettersi di farlo. Ormai però per principio non posso postare niente, mi direbbe: vedi che lo fai anche tu?
A proposito di molecole il patto con mia figlia (e Sole) era questo: io dico a Lu ok andiamo al CERN (anche se, appunto, è la figlia che ci ha portato il padre), in cambio l’indomani andiamo a Montreux, a visitare l’ultimo luogo di Freddie Mercury, colui che uno dei più grandi scrittori italiani ormai postumo in vita (io) ha definito «l’unica divinità non inventata dall’uomo», a cercare le sue molecole. «Come le trovi le molecole di Freddie?» chiede Lu. «Ha registrato le sue ultime canzoni lì, ci sarà rimasto qualcosa, in giro». «Gli atomi di Freddie nel frattempo potresti averli anche addosso, come quelli di un T-Rex o di Hitler» precisa lei. «Questa cosa te l’ho detta io». «Ok, ma è vera, quindi cosa cerchi qui?». «Mi lasci pensare?».
Da Ginevra a Montreux ci arriviamo in cinquanta minuti di treno, le stazioni in Svizzera sono di un ordine svizzero, non vedi uno zingaro, un borseggiatore, tutto svizzerissimo (mia figlia «per forza, siamo in Svizzera»), e è una giornata grigia, proprio come la volevo io. «Peccato non ci sia il sole» dice Sole (cosa può dire Maria Sole?), «No, meglio così, voglio sentire la malinconia, lo struggimento». Già lì vedo il lago di Ginevra con altri occhi, con gli occhi di Freddie che registrava le sue ultime canzoni, senza musica, «le finirete voi dopo» disse agli altri membri dei Queen, infatti l’album uscirà quattro anni dopo la morte con il titolo Made in Even.
Della famosa statua di bronzo di Freddie che domina sul lago sinceramente non me ne frega niente, a parte che odio le statue commemorative, ma è stata fatta quando Freddie non c’era più, e se l’ha mai vista lui perché mai dovrei vederla io.
Invece lo struggimento, lo spleen, lo provo nella sala di registrazione ricostruita all’interno del casinò, dove si può stare su una piastra d’oro che indica il punto dove Freddie ha inciso. Si possono togliere con il mixer le tracce musicali e lasciare solo la voce, proprio come la registrò lui, e brividi mi scorrono lungo la schiena quando sento Mother Love, canzone incompiuta, quando dice che le persone credono che non vuole pietà luogo in cui nascondersi, chiedendo alla mamma di riprenderlo dentro: «Out in the city, in the cold world outside, I don’t want pity, just a safe place to hide Mama please, let me back inside» (ascoltatela qui) fino al verso che vi ho detto, poi quando inizia a cantare Brian May fermatevi).
Tanta voglia di rubare i cimeli, lì del DNA mercuriano ci sarà, se mi prendono cosa mai potranno farmi? Una notte in questura? E se non mi prendono mi porto a casa il DNA. Sole e Lu, quasi all’unisono: «Fai pure, noi ti lasciamo qui». Grazie eh. Per cui niente molecole, sebbene come spiega il nostro più grande neuroscienziato Giorgio Vallortigara è solo essenzialismo, un’altra forma di illusione umana, anche se io gli rispondo con Leopardi, che essendo tutto il reale un nulla non vi è nulla di reale né altro di sostanza al mondo che le illusioni. Con Leopardi è d’accordo, se lo dico io no.
Già, illusioni. E l’amore, l’unica cosa che conta, l’amore per le persone che ami, e comunque anche qui, citando Freddie, «who wants to live forever when love must die?». Quando lasciamo Montreux ho fatto incetta di magliette e statuine da aggiungere al mio guardaroba da cinquantatenne infantile (ho scritto opere fondamentali, mi sono conquistato il diritto di essere infantile, altrimenti sarei sempre serio come Saviano) e la mia collezione, Lu pensa al Big Bang, Sole guarda il lago fuori dal finestrino.
Io metto gli AirPods e la mia playlist mercuriana, e guardo mia figlia e penso a quanto la amo e più ami più l’amore ti devasta in questo universo senza senso, perché too much love will kill you, troppo amore ti ucciderà, perché I don’t wanna die, I sometimes wish I’d never been born at all, non voglio morire ma a volte non vorrei essere mai nato, perché nothing really matters, to me.