“Volevo fare il veterinario, ma mi nutrivo di film”. Gabriele Muccino, con quasi 30 anni di carriera alle spalle, si racconta a cuore aperto in un’intervista al Corriere della Sera, ripercorrendo il suo percorso da “disadattato” adolescente alla consacrazione come regista internazionale. E con “Fino alla fine“, il suo ultimo film in uscita il 31 ottobre, si avventura in un territorio nuovo: il thriller. “Nell’adolescenza ero un disadattato, ho sofferto molto per non riuscire a essere ascoltato”, confessa Muccino. La svolta arriva a 18 anni, con una recita scolastica che gli fa scoprire la passione per il cinema: “Fu il veicolo per liberarmi dell’80 percento della balbuzie”.
Ma il vero successo arriva con “L’ultimo bacio“, un film generazionale che, nonostante le critiche dell’establishment, lo consacra come regista di talento. “Mi dissero che ero un bluff, mi paragonarono addirittura a Castellano & Pipolo”, ricorda Muccino. Il successo, però, porta con sé anche confusione e disorientamento. “Avevo poco più di 30 anni, ero spaesato, non avevo il libretto di istruzioni di come gestire tutto questo”.
Il regista parla anche del rapporto conflittuale con il fratello Silvio, attore nei suoi primi film: “Sono 17 anni che dico la stessa cosa, ci ho provato tante volte a riaprire con lui e non è stato possibile”. E poi l’America, la sfida di Hollywood, vinta con “La ricerca della felicità”, che incassa 300 milioni di dollari e lo consacra a livello internazionale. “Quando andai in America tutti scommettevano sulla mia sconfitta“, ricorda Muccino. “Invece, diventai un regista amato e riconosciuto”.
Oggi, Muccino si sente più sereno, pronto a sperimentare con “Fino alla fine”, un thriller che racconta la storia di Sophie, una giovane americana in vacanza a Palermo che, travolta da una rapina e dall’amore per Giulio, scopre “l’asprezza selvaggia della vita”. “Sophie camminerà sull’orlo del baratro”, spiega Muccino, “si getterà in una vertigine pericolosa, trasformando una semplice avventura in una battaglia per la sopravvivenza”. Un film che parla di scelte, di fragilità, di voglia di vivere, di un’umanità attratta dall’ignoto e dalla sfida. “Questo film non va visto ma vissuto”, afferma Muccino. “Tratta di ciò di cui le nostre vite hanno bisogno, la spinta a superare le barriere, in un mondo globalizzato e omologato”. “Fino alla fine” è una storia d’amore e di suspense, una corsa contro il tempo in cui Sophie, affiancata da giovani malviventi, impara a cadere e a rialzarsi. Un film che celebra la vita e la libertà, in un’epoca in cui tutto sembra già scritto.