Speciale legge di bilancio
di Chiara Brusini | 22 Ottobre 2024
Un nuovo balzello a carico delle piccole e medie imprese digitali italiane. In evidente contrasto – esattamente come l’abolizione dell’Aiuto alla crescita economica decisa l’anno scorso – con le promesse di Giorgia Meloni sulla necessità che lo Stato sia “un alleato che aiuta le aziende a crescere, che le aiuta a diventare più forti e competitive”. Nella manovra per il 2025 si cambia registro: con l’alibi che l‘accordo globale sulla tassazione delle multinazionali nei Paesi in cui operano è in stallo, il governo ha deciso di far cassa sulle pmi. Che, stando a quanto annunciato la settimana scorsa dal viceministro Maurizio Leo, saranno chiamate a pagare l’imposta sui servizi digitali introdotta dopo vari slittamenti nel 2020 con l’intento di colpire i “giganti del web“. All’epoca la leader di Fratelli d’Italia la definì “un’idiozia” e “una vergogna“. Giudizio evidentemente superato in nome della Realpolitik, ovvero l’esigenza di trovare coperture per altri provvedimenti da inserire in legge di Bilancio.
La cosiddetta web tax è, in concreto, un’imposta del 3% sui ricavi – non gli utili – da pubblicità digitale, accesso alle piattaforme web e trasmissione di dati raccolti dagli utenti. L’e-commerce è escluso, così come le interfacce digitali usate per gestire i sistemi dei regolamenti interbancari. L’imposta si applica solo se chi fruisce dei servizi è localizzato in Italia, in base al suo indirizzo Ip. E al momento devono pagarla solo i gruppi con ricavi globali oltre i 750 milioni e ricavi da servizi digitali Italia di almeno 5,5 milioni. L’anno scorso il gettito si è fermato a 390 milioni contro i 700 attesi a regime, in base alla relazione tecnica della norma risalente al 2019. Non più di un buffetto, insomma, per i colossi del web e del software che eludono il fisco spostando gli utili in paradisi fiscali a bassa tassazione. Nella speranza di incassare di più, dal 2026 le soglie di fatturato saranno eliminate per ampliare la platea coinvolta. Col risultato di colpire anche le pmi. Chissà se l’ha capito il capogruppo di Forza Italia al Senato Maurizio Gasparri, che da mesi predica la necessità di tassare di più “big tech”.
Per capire come si sia arrivati a questo punto va ricordato che l’imposta sulle transazioni digitali era nata come misura transitoria. Doveva restare in vigore solo per il tempo necessario perché i membri dell’Ocse si accordassero sul cosiddetto “primo pilastro” della riforma della tassazione delle multinazionali: quello che prevede la redistribuzione del “diritto a tassare” una parte di utili tra tutti i Paesi in cui un gruppo è attivo. E dovrebbe aggiungersi al secondo pilastro, la tassa minima del 15% entrata in vigore nella Ue a inizio 2024. Esattamente tre anni fa, quando si sperava che a dicembre 2023 la convenzione sul primo pilastro sarebbe diventata realtà, Austria, Francia, Italia, Spagna e Regno Unito hanno firmato con gli Stati Uniti un accordo di compromesso che consentiva ai primi di mantenere in vigore fino a quella data le loro web tax senza rischiare contromisure punitive – leggi dazi e tariffe sui beni esportati – da parte di Washington, le cui multinazionali sono il principale bersaglio di quelle tasse. Ma nel 2023 nulla si è mosso e a febbraio 2024 la “dichiarazione congiunta” è stata rinnovata estendendola fino a giugno. Da allora tutto tace, perché al Senato Usa non c’è la maggioranza necessaria per far passare il trattato fiscale internazionale necessario per concedere agli altri Paesi un diritto di imposizione su imprese non residenti.
Il Vecchio continente, preso atto che il primo pilastro è su un binario morto, si sta muovendo in ordine sparso. In Francia la pesante manovra del governo Barnier non prevede interventi ad hoc sul digitale, ma un gruppo di parlamentari ha proposto di aumentare l’aliquota della web tax dal 3 al 5 o 6%. Roma dal canto suo vuol cambiar volto all’imposta cancellando il tetto dei ricavi, intervento che stravolgerebbe il senso della misura contraddicendo le intenzioni sempre dichiarate dal centrodestra. Sempre che il testo della manovra, ancora non disponibile, confermi gli annunci. E che la maggioranza non si spacchi anche su questo, come sta succedendo riguardo all‘aumento del prelievo sulle plusvalenze da criptovalute.