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Politica - 22 Ottobre 2024
In molteplici occasioni si è parlato delle Autonomie Differenziate come di una sfida di competitività che il Sud rifiuterebbe di abbracciare. Per indolenza? Per ignavia? O forse perché, in piena ragionevolezza, il Sud non potrebbe (o dovrebbe) essere invitato a una sfida senza avere le stesse carte dei suoi competitor? Qualsiasi banca dati dotata di attendibilità restituisce ancora oggi l’immagine di un Paese, il nostro, attraversato da un immenso divario interno.
In base ai dati del World inequality database, rielaborati da Openpolis, l’Italia è lo Stato europeo che riporta il divario interno più ampio (l’1% detiene il 13,6% di tutto il reddito nazionale), riportando anche il più marcato accentramento delle ricchezze: +7,4% tra 1980 e 2022. Di pari segno la lettura del Pil pro capite: Eurostat ne riporta i valori su base regionale, ponendo pari a 100 il valore medio nell’Unione Europea. Se da un lato apprendiamo che la Lombardia (con 128), l’Emilia-Romagna (con 128) e il Veneto (con 107) sono al di sopra della media europea, le regioni meridionali restano sistematicamente al di sotto: la Puglia riporta 63, la Calabria 56 e la Campania 62. Si certifica, ancora una volta, una condizione di ritardo che preclude a un’ampia area del Paese di poter “competere”, già nelle condizioni attuali.
Le principali figure di merito del divario interessano settori fondamentali come la sanità e l’istruzione. E impediscono di archiviare la Questione meridionale, nonostante i continui e maldestri sforzi profusi in tal senso. Secondo i dati di Openpolis (2024), sono tutti collocati nel Mezzogiorno i municipi che non raggiungono i 15 posti in asilo nido ogni 100 bambini: tra gli altri, Caserta (14,9%), Palermo (12,8%), Isernia (12,4%), Andria (11,2%), Ragusa (10,7%), Messina (10,3%), Barletta (8,3%), Catania (8%) e Campobasso (7%). Riusciamo a coprire il 12,7% del bacino potenziale di utenza al Sud, mentre si attesta al 24,7% la media nazionale (dati relativi agli anni 2017-2018). Nel frattempo, il Consiglio Europeo di Barcellona (2022) ha fissato al 33% la soglia obiettivo, in quanto questo dato, inevitabilmente, influisce sul livello di occupazione femminile.
Analoga la serie di dati Eurostat che rende conto del numero di posti letto in ospedale per 100mila abitanti, che nel 2021 erano 362,8 in Lombardia, 363,9 in Emilia-Romagna e 355,6 in Piemonte. In Puglia 277,8 e in Calabria 193,7.
Quale dovrebbe essere la cura per questi divari? Si fatica davvero a capire come si possa migliorare la condizione di tali aree trattenendo maggiori risorse sui territori già ricchi del Paese, ossia le regioni che hanno avanzato richiesta delle maggiori autonomie: Veneto, Lombardia, Emilia-Romagna. È il caso di ricordare che la nostra Costituzione prevede che la tassazione sia personale e nulla abbia a che fare con il territorio da cui proviene. L’art. 53 così recita: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Mai viene citato il territorio in cui le tasse si versano. Anche perché in ogni territorio ci sono cittadini più abbienti e meno abbienti, così come ci sono contributori ed evasori, sia pure in percentuali differenti.
Giova ricordare che l’obiettivo principale della Costituzione è indicato nell’articolo 3: tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. Lo spirito che sottende questo articolo pervade il saggio di Francesco Pallante, professore ordinario di Diritto costituzionale presso l’Università di Torino, autore di Spezzare l’Italia, edito da Einaudi. Scrive Pallante: “Il principio costituzionale della progressività fiscale implica una redistribuzione della ricchezza tra concittadini dello Stato, quale strumento attraverso cui sviluppare il legame sociale tra le persone: rattrappire la distribuzione al livello dei corregionali, a discapito dei connazionali, significa sancire il prevalere dell’appartenenza regionale su quella nazionale. In aperta violazione dell’articolo 5 della Costituzione”. L’unità della Repubblica è infatti la stella polare, il limite invalicabile a qualsivoglia riconfigurazione delle autonomie.
Un tipico argomento che suscita forti perplessità, sebbene sia assunto alla base delle considerazioni che motiverebbero la necessità di trattenere quote maggiori di gettito fiscale sui territori più ricchi sarebbe quello del differente costo della vita. Ad esempio, utilizzare a supporto di tale argomento il maggior canone di locazione nelle regioni ricche contiene un difetto di natura tautologica, dato che il canone di locazione è fortemente correlato al valore degli immobili: iniettare più risorse nelle aree in cui gli immobili valgono di più comporta null’altro che un sostegno ulteriore alle aree più ricche del Paese.
Nel frattempo, il livello dei servizi, dagli ospedali agli asili, alle scuole, alle infrastrutture resta inferiore proprio nelle aree più povere. Secondo i dati della Fondazione Gimbe, pubblicati nel 2023, la cifra associata alla mobilità sanitaria interregionale avrebbe raggiunto nel 2020 un valore di 3,3 miliardi, con tre regioni in grado di accogliere la metà della mobilità attiva: Lombardia (20%), Emilia-Romagna (16,5%) e Veneto (13%). Si tratta proprio delle tre regioni ai primi posti nella graduatoria dei Livelli essenziali di assistenza. A proposito di “costo della vita”, verrebbe da chiedersi come si possa quantificare un dato di cui poco si parla: come si quantifica il fatto che un napoletano viva mediamente 1,5 anni in meno rispetto a un abitante del Nord-Est del Paese?