La musica che cambia: artisti e fruitori, nove verità scomode

5 giorni fa 2

Nell’ultimo articolo dedicato ai Cure, il punto 5 si spingeva oltre la band, affrontando temi più ampi legati alla scena musicale contemporanea. Un punto (leggi qui), a sua volta, suddiviso in nove aspetti, ciascuno dei quali esplorava un elemento specifico dell’evoluzione della musica e del suo impatto. Inaspettatamente, proprio quel passaggio ha generato un acceso dibattito tra i lettori, con commenti, osservazioni e anche obiezioni.

Recuperiamo, dunque, quegli aspetti, facendoli diventare nove punti veri e propri sui quali riflettere insieme:

Cominciamo!

1. Il termine “Boomer”: riduttivo e generalizzante, un’etichetta insopportabile

L’etichetta “Boomer” è diventata un modo rapido per liquidare idee, atteggiamenti o sensibilità percepiti come “superati”. Ma questo termine, ormai abusato, rischia di appiattire le sfumature e nascondere il valore e le esperienze del passato. Ridurre tutto a una categoria statica significa ignorarne l’evoluzione. Paradossalmente, il fastidio lo generano spesso proprio loro, i “Boomer”: con una mano si grattano la panza e con l’altra si compiacciono di quell’etichetta, come fosse un distintivo di cui andare fieri. Che imbarazzo!

2. Artisti senza identità, un giorno rockstar maledette e il giorno dopo angeli biondi. Nel nome della targhettizzazione

In un mondo dominato dalle logiche di mercato, molti artisti di questo tempo sembrano sacrificare la propria identità per inseguire il trend del momento. In verità, ciò accade soprattutto nel favoloso mondo dei format televisivi e di ciò che da quegli show ne esce. Un giorno interpretano il ruolo di rockstar maledette, e il giorno dopo appaiono come figure angeliche, pronte a compiacere il mood cangiante del pubblico. La narrazione imposta ci vuole far credere che il presente della musica arrivi proprio da lì. Da quel luogo arriva soltanto una cosa: il nulla.

3. Esibizioni brevi: un concerto deve onorare il pubblico

I concerti dovrebbero essere momenti di vera connessione, un dono per il pubblico che sceglie di esserci. Negli ultimi anni, però, molte esibizioni sono diventate brevi intermezzi, ridotte all’essenziale per assecondare ritmi serrati e logiche di profitto. Questo tipo di attitudine è accettabile soltanto da quelle band che hanno fatto del loro verbo un’urgenza: penso ai gruppi punk, per i quali la brevità è una dichiarazione di intensità, non un compromesso. Per tutti gli altri, la durata di un concerto non è solo questione di minuti, ma di rispetto.

4. Cellulari onnipresenti: schermi alzati che tolgono autenticità

Una volta, andare a un concerto significava immergersi completamente nell’esperienza, lasciare fuori tutto il resto. Ora, il paesaggio è costellato di schermi: una foresta di cellulari alzati che filma, condivide, posta. Ma cosa resta di quel momento vissuto dal vivo? molti artisti contestano e anch’io nel mio piccolo, da semplice fruitore dei concerti, voglio dire la mia, stanco di guardarli dallo schermo del vostro telefonino: sapete dove dovete mettervelo, quel telefono?

5. Artisti che si autocensurano: smussare l’arte o preservarla?

L’arte dovrebbe essere espressione autentica e senza compromessi. Stiamo parlando di autocensura o di protezione? In un mondo in cui ogni parola può essere politicizzata, alcuni artisti preferiscono tenere la propria musica lontana dalle polemiche, creando uno spazio neutro e accessibile a tutti. Altri scelgono esattamente il contrario, affrontando temi controversi a rischio di dividere il pubblico. Qual è la cosa migliore? La domanda resta aperta: meglio rischiare di dividere o proteggere l’arte stessa?

6. Icone musicali rinnegate: nel nome del Dio Denaro e dei format televisivi

Alcune icone musicali, un tempo simboli di autenticità e ribellione, sono oggi adattate per soddisfare esigenze commerciali e televisive. Artisti e canzoni che sfidavano il sistema si riciclano in forme innocue e quasi sterili in show televisivi. Questo processo di addomesticamento svuota la musica del suo significato originario, restituendo solo un prodotto da vendere. Così, il “Dio Denaro” trionfa, trasformando l’arte in merce e le icone in ombre sbiadite di ciò che furono.

7. Brani progettati per le classifiche, inseguendo il mood del momento

Quanti artisti sembrano creare oggi musica pensando più alle classifiche che alla sostanza? E quale sarebbe l’obiettivo? Brani brevi, orecchiabili, perfetti per essere ascoltati distrattamente o inseriti in playlist virali. Ma cosa rimane di un pezzo creato solo per inseguire il mood del momento? Ogni pezzo progettato per compiacere le tendenze rischia di trasformarsi in un suono di passaggio, un eco che svanisce nel rumore del mercato.

8. Endorsement politici: un danno per artisti e candidati, più in generale per la musica

Gli endorsement politici da parte degli artisti sono fuori tempo massimo. Spacciati per prese di posizione, spesso non lo sono, e finiscono per alienare una parte del pubblico, riducendo la musica a una semplice bandiera ideologica. Gli anni 70 sono finiti da un pezzo, diciamocelo. Anche i candidati, associandosi agli artisti, rischiano di sembrare una moda passeggera. Così la musica ne esce indebolita, strumentalizzata e divisa, incapace di rappresentare quella forza universale che dovrebbe trascendere ogni schieramento.

9. Costi esagerati dei biglietti: prezzi che allontanano il pubblico

Negli ultimi anni, i prezzi dei biglietti per i concerti hanno raggiunto cifre esorbitanti, rendendo l’esperienza live un lusso per pochi. Quello che dovrebbe essere un momento di condivisione e passione diventa così una barriera economica, che allontana proprio chi avrebbe più interesse a partecipare. In questa cosa sì, bisognerebbe tornare alla fruizione esistente negli anni 70. Gli alti costi a chi sono dovuti? Anche agli artisti stessi; come afferma Robert Smith, molti sono “semplicemente avidi”.

Questo blog non può prescindere dalla consueta playlist dedicata di nove canzoni. La potrete ascoltare gratuitamente sul mio canale Spotify.
Buon ascolto!

9 Canzoni 9 … scomode

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