Cinema - 16 Novembre 2024
Inutile. Non ce la fanno proprio. Ai tempi di pane e Draghi ricostruire la storia di partiti e leader della sinistra italiana (PCI, PSI, ecc…) fino agli anni Ottanta non è proprio cosa. È quell’uso della lente “senno del poi” a distorcere strategie, concetti e parole di ieri, come se il significato di qualcosa degli anni Settanta si ritrovasse solo nel diabolico vuoto del globalismo del Duemila.
Berlinguer – La grande ambizione, il film diretto e scritto da Andrea Segre, oltre ad essere una lodevole cristallizzazione estetica sull’essenzialità quotidiana di abiti, cucinotti e suppellettili del pre consumismo edonistico (“si campava con poco e si stava bene”), è soprattutto a livello di messaggio politico la mummificazione agiografica di un leader popolare a sinistra come mai nessun altro, impacchettata con il desiderio, magari involontario, di ridurlo, come ha spiegato Luciana Castellina, a generico “leader da Partito Liberale”.
Già, il film di Segre sembra come smussare ogni possibile asperità o durezza politica che l’epoca comportava a partire dallo scontro generazionale casalingo alla pastasciutta nel tinello dei Berlinguer fino ad una specie di atmosfera impiegatizia all’interno della direzione del Partito Comunista, laddove si consumavano invece lacerazioni e scontri dialettici non proprio riassumibili nel borbottare polemico di un macchiettistico Pietro Ingrao.
Sul piano internazionale basterebbe solo ricordare che Mosca ovvero il PCUS non era il nemico modello Spectre a cui genuflettersi in pubblico e in privato tornati a casa accendere un cero con Aldo Moro e pregare per il “compromesso storico”. Insomma il più forte Partito Comunista d’Occidente che tra le regionali del 1975 e le politiche del 1976 sfiorò il primo posto della Democrazia Cristiana in La Grande ambizione sembra già il piccolo nefasto laboratorio neoliberista modello PD dei Veltroni e dei Prodi che per combattere Berlusconi ci siamo dovuti trascinare dietro per altri trent’anni come simulacro di quello storico popolare PCI.
L’apoteosi però arriva quando di fronte alla lista di ministri proposta dalla DC per il governo Andreotti nel marzo 1978 il Berlinguer del film (Elio Germano anche lui travolto dalla corrente mimetica) usa/userebbe un termine assurdo, chiaramente figlio di un oggi dove si scambia la malattia con la cura. Lista che ricordiamo il PCI avrebbe dovuto appoggiare in Parlamento per palesare definitivamente, dopo due anni di astensione parlamentare concordata sul governo monocolore democristiano, il definitivo affermarsi del cosiddetto “compromesso storico”.
Ebbene seduto nel suo ufficio di Botteghe Oscure il segretario del Partito Comunista snocciola i nomi dei politici democristiani e non vedendo alcun nome nuovo o differente rispetto al precedente monocolore esclama: “Ma nemmeno un tecnico!”. Ma chi Draghi? Monti? La Fornero? Intanto, il concetto di “tecnico”, inteso come un esperto professionista di un’area tematica (viepiù quella economico-finanziaria ovvero nella pratica degli ultimi anni quella dei tagli indiscriminati di sanità, pensioni, diritti dei lavoratori, ecc..) piazzato in esecutivi politici nazionali è un’invenzione diabolica delle ingerenze istituzionali finanziarie sovranazionali post 1989. Una disgraziata pratica antidemocratica usata spesso per sostituire maggioranze partitiche democraticamente elette (il Cile di Pinochet) oppure nell’atto di applicare norme e leggi contrarie all’ordine politico neoliberista dominante (alcuni ministri del primo governo gialloverde, ad esempio).
Insomma, al massimo nel marzo del 1978 Berlinguer avrebbe potuto esclamare qualcosa come “nemmeno un indipendente!”. Soluzione lessicale che all’epoca si usava riferendosi a personalità non legate in maniera organica alle correnti di un partito, ma comunque ad esso legato, DC o PCI che fosse, per farsi eleggere in Parlamento (oltretutto raramente per diventare ministro) nel rappresentare una precisa linea politica. Insomma, i “tecnici” non avrebbero salvato alcun “compromesso storico” dall’ingerenza brutta e cattiva dei partiti, anzi a farlo saltare ci fu il botto del rapimento e dell’uccisione di Moro (altro capitolo storico, solita ingerenza sovranazionale). Eppure questa svista, più o meno volontaria, cela in realtà la difficoltà dei cosiddetti progressisti contemporanei – qui in chiave cinematografica – di maneggiare la solita nostalgica mummificazione dell’icona buona ad usum Delphini.
Eccola la lente del senno di poi: quello che è successo dopo va a condizionare quello che era accaduto prima. Insomma se si vuole fare un lavoro storico lasciate che la complessità, anche aspra, meno comprensibile, più peculiare, del passato giganteggi oggettivamente rispetto ad un presente di sinistra che di social-comunista non ha più nemmeno le mutande.