Lo scrittore Daniele Mencarelli parla del romanzo "Brucia l'origine" su un giovane diviso tra passato e presente
Gabriele Bilancini è uno che ce l'ha fatta. Dal quartiere popolare di Roma dove è cresciuto si è trasferito a Milano e ha realizzato il suo sogno: è diventato un designer di successo, ha soldi e fama e si è fidanzato con Camilla, la figlia (bellissima) del suo maestro e mentore. Ora però gli tocca tornare a casa, a Roma, e ritrovare la famiglia e gli amici e tutto quel mondo che si è lasciato alle spalle. Perché per lui Brucia l'origine (Mondadori, pagg. 200, euro 19), come si intitola il nuovo romanzo di Daniele Mencarelli, poeta e scrittore romano diventato celebre con Tutto chiede salvezza (finalista allo Strega e diventato una serie Netflix). Mentre chiacchieriamo, dai Castelli Mencarelli guida verso la capitale, un tragitto che percorre quotidianamente da oltre vent'anni, durante il quale scorrono accanto a lui gli Acquedotti, quelli del Parco tanto amati dal protagonista Gabriele, che da bambino li confondeva con elefanti. Il punto d'arrivo è San Giovanni in Laterano. Roma Sud, l'altra protagonista del romanzo.
Daniele Mencarelli, partiamo da qui. Da Roma.
«Il tentativo è quello di offrire il sentimento di chi la vive oggi, il sentimento di un individuo e di un popolo profondamente depresso. Se penso ad altre città, in cui il senso di appartenenza e di identità è intatto o addirittura aumentato, come Napoli o Milano, il romano si è avvilito, proprio come la città negli ultimi trent'anni, che non solo non si è evoluta, ma è precipitata all'indietro. Ormai è una capitale nordafricana, o extraeuropea».
Che Roma è quella del libro?
«Un quadrante preciso e unico di Roma Sud: il quartiere Appio Tuscolano, che da solo conta 900mila abitanti, più di quasi tutte le città italiane. È da sempre molto popolare e connotato politicamente, come uno dei grandi feudi della sinistra romana, ed è attraversato dalle due grandi consolari, l'Appia Nuova e la Tuscolana, che erano due delle vie commerciali più grandi d'Europa; ma oggi, con la rivoluzione digitale, molto di tutto ciò si è perso. Questo quadrante è in sofferenza e c'è stato un mutamento profondo nei valori e nell'identità».
Di che tipo?
«Nella zona storica del quartiere resiste quella parte di pensiero progressista che ha dato i voti al Pd, mentre nell'area più nuova e periferica ha stravinto la destra; quindi possiamo dire che è una cortina di tornasole efficace di quello che è successo in tutta Italia».
Una città e un Paese dove c'è una divisione profonda?
«La divisione sociale, verticale e gerarchica, fra chi vive in un certo benessere economico e chi no c'è sempre stata, ma oggi in molti casi è netta e drammatica: anche perché fa una bella differenza, per esempio per la salute... Negli ultimi anni, questa lettura per ceti è venuta meno e l'interesse è stato cannibalizzato da altri temi, che riguardano i diritti civili, come se questa lettura non fosse importante; invece per me lo è, eccome. Poi il libro è controverso: Gabriele è portatore di alcuni valori e li difende contro quelli degli amici e il romanzo non vuole trovare un equilibrio, volutamente».
Quali valori?
«Gabriele sostiene che i soldi non diano la felicità e che l'affermazione personale non elimini i problemi, anzi. Ma i suoi amici non legittimano nemmeno questi ragionamenti. Il suo amico Cristiano lo accusa di essere diventato un radical chic: uno come me lo schifi perché sono brutto, sporco e cattivo, gli dice, e quelli come te vengono qui solo a pontificare e mai a costruire».
Oltre alla questione sociale, c'è il conflitto interiore di Gabriele.
«È un ragazzo che riflette lucidamente sul tema dell'affermazione. Ha avuto una grande fortuna, quella di scoprire il suo talento, metterlo in atto e ricevere attenzione e accoglienza dal mondo; questo però pone una serie di costi, su tutti la necessità di passare da Roma a Milano, dal mondo popolare delle sue origini e della sua famiglia proletaria all'ambiente del design milanese, elitario, ricco da generazioni, selettivo come pochi».
Come lo vive?
«Senza riuscire a mettere in continuità il mondo delle sue origini con quello del presente, perché vive questo sentimento molto umano di vergogna, rispetto a due mondi che percepisce come troppo diversi per poter dialogare fra loro. Gabriele è uno dei tanti che soccombe al tema del giudizio altrui e, per sottrarsi a esso, l'unica cosa che riesce a fare è mentire a entrambi i mondi; e poi, per questo, soccombe anche al senso di colpa, ne è intossicato, poiché non esiste un essere umano con cui sia lontanamente sincero».
Si sente un «alieno»?
«In psichiatria si chiama ipervalutazione del giudizio altrui e crea una gabbia, che è contraria alla verità. Dice il Vangelo di Giovanni: conoscerete la verità e vi renderà liberi. La verità è l'unica pratica per liberare noi stessi da noi stessi. Ma oggi questa gabbia è un meccanismo egemone».
Ne siamo tutti intrappolati?
«Uno dei grandi temi dell'individuo, quanto al benessere interiore, è cercare di lavorare in una direzione di unità rispetto alla sua identità più profonda: riuscire, nei diversi ambienti in cui viviamo, a mantenere la continuità rispetto a questa identità. Ma fin dall'infanzia siamo abituati a recite sociali che ci conducono a dei conformismi e, per ogni luogo che frequentiamo, offriamo una declinazione di noi che sappiamo essere lontana da quell'identità».
Se ne può uscire?
«Il finale è volontariamente apertissimo. Per non affogare nel bicchiere vuoto, come dice la fidanzata a Gabriele, serve il coraggio di esporsi alla verità. E coraggio è una parola che viene da cuore».
Come in Tutto chiede salvezza, anche qui c'è la questione del nascondere: la fragilità, la vergogna...
«Il tema dell'occultamento e del giudizio degli altri, che ci impediscono di dire quello che veramente ci sta a cuore, è una questione cardinale e, a livello relazionale, credo sia un elemento fortemente corrosivo: crea le premesse per l'infelicità, sia per noi, sia per un rapporto che sia costruito su questo sbilanciamento tremendo, che si chiama menzogna, falsità».
Anche se Gabriele non è in un ospedale psichiatrico, ma apparentemente è inserito benissimo, è anche lui un «escluso»?
«Nei miei personaggi c'è un dato di profondo isolamento, che non è la solitudine, una condizione a volte molto gratificante, di cui l'individuo ha bisogno per stare dentro di sé e riflettere; l'isolamento è uno stato in cui si precipita e che non prevede la solitudine, perché possiamo essere isolati anche allo stadio, o in famiglia».
Come accade?
«Il presupposto dei miei libri è che il grande nemico dell'uomo sia sé stesso: siamo vittime di certi meccanismi mentali che spesso creano una gabbia, un evitamento, anche in individui totalmente inseriti nel mondo».
La letteratura ha un ruolo in tutto questo?
«Sì. Per me è la forma più alta di relazione non carnale che l'uomo abbia a disposizione. In particolare la poesia è, per me, il grande luogo dove sentirmi meno isolato e più compreso».
E il romanzo?
«Amo molto la letteratura anglofona, dove esistono meno paletti fra poesia e prosa, per esempio penso a Raymond Carver. Credo che questi due generi e queste due lingue possano convivere molto di più di quanto oggi sia dato per scontato.
E credo fermamente che nessun uomo, per quanto freddo, materialista e distaccato, sia immune dai temi cari alla poesia: l'esistenza, la vita, la morte, il destino, il tempo, Dio, la mancanza. Questa è stata la mia scommessa».