Reggio Emilia, 101 lavoratori in nero a 50 centesimi all’ora nei laboratori tessili: trovati materassi a terra per la notte

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Zhongli era senza permesso di soggiorno, arrivato in Italia dalla Cina in cerca di lavoro nel novembre dell’anno scorso. Operaio cucitore senza contratto, che tutti i giorni della settimana tirava dritto dalle 10 di mattina a mezzanotte, pagato a cottimo qualche centinaio di euro al mese. Dormiva e mangiava sul luogo di lavoro. Muhammad viene da Lahor in Pakistan, dove ha lasciato la madre e due fratelli in povertà. Ha accettato di lavorare in un laboratorio tessile a Reggio Emilia dopo quattro mesi di stenti a Bologna senza impiego. Naeem è spaventato perché ha lasciato la madre e due fratelli minori di 7 e 11 anni in Bangladesh: “Sono solo io che lavoro e mando loro i soldi. Domani come farò a mantenere la mia famiglia?”. Safeer era fuggito dalla guerra in Kashmir nel 2016 e approdato in Italia nel 2023 dopo un allucinante viaggio sulla rotta balcanica che gli era costato violenze e minacce. Anche Safeer lavorava dalle 12 alle 14 ore al giorno, senza ferie, permessi, riposo settimanale, formazione, misure di sicurezza e assistenza medica. Con due pause giornaliere in cui doveva cucinare per il suo caporale Javed, incontrato in Moschea. E con una paga oraria da record: 0,50 euro l’ora.

Sono solo alcune delle tante storie personali, 101 per la precisione, emerse al termine di una serie di controlli eseguiti dal 7 al 10 ottobre in aziende del settore tessile abbigliamento delle province di Reggio Emilia e Modena, che hanno prodotto la sospensione di numerose attività imprenditoriali, con una persona arrestata e altre sette denunciate per intermediazione illecita e sfruttamento lavorativo. L’attività coordinata dalla Procura di Reggio Emilia ha visto al lavoro i Carabinieri di Reggio e Modena, assieme agli ispettorati del Lavoro delle due province, che hanno controllato sei stabilimenti tessili: un’impresa a Modena considerata la capofila delle attività illecite, una nel comune di Reggio Emilia e altre quattro nella Bassa reggiana.

A far partire le indagini è stata la denuncia di Safeer Muhammad, ex dipendente della ditta individuale “Confezione He Huanliang”. Nel giugno scorso Safeer si appoggiava al comune di Reggio Emilia e al progetto regionale Common Ground, che tutela le vittime di sfruttamento, per raccontare senza timori di ritorsioni quanto gli era accaduto. Aveva operato ininterrottamente per un mese come sarto, presso la sede aziendale di via Gramsci, ogni giorno dalle 9,30 alle 24,00, senza riposo settimanale, a fianco di lavoratori di origine cinese che avevano turni di lavoro anche più massacranti dei suoi, dormendo in una stanza messa a disposizione dal titolare. La paga complessiva per quel mese, naturalmente liquidata in contanti, era stata di 190 euro. Le immagini riprese dal nucleo ispettorato del lavoro dei Carabinieri di Reggio mostrano le condizioni di degrado, di promiscuità tra i tavoli di lavoro (più di cento) e i materassi stesi per terra sui quali dormire, dello stabilimento di Reggio Emilia. Dove i servizi igienici erano indecenti e fragili pareti di cartongesso dividevano gli ambienti senza aerazione e con dotazioni elettriche inadeguate.

I successivi controlli e accertamenti dei Carabinieri hanno fatto emergere l’insieme delle gravi forme di sfruttamento lavorativo gestite dai due titolari delle attività, He Huanliang e Chen Yongzhen, assieme alla moglie di Huanliang, He Sushu, che aveva il compito di impartire gli ordini ai lavoratori. Delle 101 persone che lavoravano per loro, la maggior parte in stato di bisogno, 21 erano impiegati “in nero” e altri 7 erano irregolari senza permesso di soggiorno. Le condizioni di pericolo al lavoro e la mancanza dei dovuti sistemi di prevenzione degli incidenti, hanno determinato la sospensione immediata delle attività e prodotto sanzioni amministrative e ammende per oltre 400mila euro.

Nel convalidare la richiesta di arresti domiciliari per He Huanliang, il giudice Andrea Rat dice che il titolare degli stabilimenti era a conoscenza dello stato di necessità dei lavoratori, che avevano accettato le sue condizioni solo per l’assoluto bisogno dei soldi necessari alla sopravvivenza propria e dei famigliari nei Paesi d’origine. Fare leva sulla fragilità e sui bisogni delle persone è una pratica sempre più diffusa che purtroppo nel 2024 ha elevato esponenzialmente il ricorso al caporalato e allo sfruttamento nel mercato del lavoro anche in Emilia-Romagna. Lo dicono le inchieste dell’anno che non tralasciano nessun settore produttivo, con punte allarmanti nell’agrozootecnico, nell’industria turistico alberghiera e nella logistica.

Come coniugare la repressione doverosa degli illeciti con il diritto a un’esistenza dignitosa dei lavoratori sfruttati e coinvolti, è forse la sfida più difficile. “L’indagine documenta che le condizioni di sfruttamento esistono”, dice a ilfattoquotidiano.it il Procuratore di Reggio Emilia Calogero Gaetano Paci, “e sono molto diffuse anche in territori dove il tessuto economico-imprenditoriale è particolarmente ricco e tecnologicamente avanzato. Il caporalato e lo sfruttamento della manodopera di provenienza straniera si inseriscono in filiere produttive con strutture fortemente competitive, anche in termini di accelerazione dei tempi di lavorazione, a scapito delle norme primarie di tutela della sicurezza e della dignità del lavoro. L’indagine è un caso pilota, frutto di un lavoro coordinato e congiunto tra operatori di polizia giudiziaria, della prevenzione e degli enti territoriali che si occupano del sostegno di coloro che si trovano in stato di bisogno. Grazie a questa convergenza è possibile tutelare la condizione dei lavoratori e salvaguardare le produzioni degli imprenditori onesti”.

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