Salario minimo, scaduto il termine per recepire la direttiva Ue. Un anno fa la proposta per delegare il governo, ecco che fine ha fatto

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Chi se lo ricorda più il salario minimo? Di certo maggioranza e governo non fanno nulla in merito e non può stupire. Così passerà sotto silenzio anche l’ultimo giorno utile per recepire la direttiva europea sui salari minimi adeguati, legali o contrattuali. Due infatti le strade per recepire la normativa: fissare una soglia, come quella dei 9 euro della proposta unitaria delle opposizioni, oppure perseguire lo stesso risultato attraverso la promozione della contrattazione collettiva. Il governo italiano invece non s’è mosso e, se non altro, è in compagnia. Come ha riportato il Sole 24 ore citando un working paper di Adapt, dodici Stati membri non si sono ancora attivati e Svezia e Danimarca hanno chiesto l’annullamento della direttiva. La Germania ha già integrato la normativa interna, mentre ad aver quantomeno recepito sono Romania, Lituania, Repubblica Ceca, Ungheria, scegliendo per lo più la strada del salario minimo legale, con soglia fissata e monitoraggio da attuare nei rispettivi ordinamenti interni. Gli altri, Belgio, Croazia, Grecia, Irlanda, Lettonia, Lussemburgo e Polonia e Italia, hanno presentato una proposta di legge.

Ma prima di capire che fine ha fatto la proposta di legge italiana, va fatto un passo indietro. Esattamente due anni fa, alla Camera, alle opposizioni che chiedevano al governo di impegnarsi a recepire la direttiva era stato risposto che sarebbe stato fatto, ma con calma. “Considerando che il tempo di recepimento della direttiva scade tra due anni, 15 novembre 2024, in fase di recepimento verranno attivati tavoli con tutte le parti sociali”, aveva dichiarato il sottosegretario al Lavoro della Lega, Claudio Durigon, assicurando “il più efficace raggiungimento degli obiettivi comunitari”. Due anni sono passati e del recepimento non c’è traccia. A dire il vero, nemmeno della proposta di legge italiana. Perché quella che entrava nel merito della questione, proponendo la famosa soglia da 9 euro lordi l’ora che il governo si è affrettato a far bocciare dal Cnel di Renato Brunetta, è in stato comatoso da dicembre scorso.

Trovata la quadra, a inizio legislatura le opposizioni avevano depositato una proposta unitaria, a prima firma Giuseppe Conte, che prevedeva la soglia minima introdotta per legge. Proposta soppressa dalla maggioranza in commissione Lavoro alla Camera, dove con due emendamenti è stato delegato il governo, due volte: sull’equa retribuzione e sui controlli contro i contratti pirata. Al contrario, nel testo della maggioranza non si usa mai la parola salario e tantomeno si indica una cifra, ma più in generale si parla di “assicurare ai lavoratori trattamenti retributivi giusti ed equi”. Qualora la proposta fosse stata approvata, il governo avrebbe sei mesi per esercitarla. Ma di fretta non c’è stata nemmeno l’ombra. Da allora, infatti, sono passati dieci mesi in cui non è successo nulla. Approdata in commissione Lavoro e Sanità al Senato, la proposta della maggioranza è rimasta in un cassetto fin all’altro ieri. Le audizioni sarebbero al via, ma è tutto ancora da fare, anche perché i famosi tavoli di cui parlava Durigon non li ha mai visti nessuno.

“Questi ritardi non sono casuali, ma fanno parte di una strategia che ha l’obiettivo di privare i lavoratori dei propri diritti. Trasformare la nostra proposta di legge in una delega in bianco al governo è servito solo a perdere tempo e confermare lo status quo, vale a dire strizzare l’occhio a quei soggetti che per i partiti di maggioranza sono un bacino di voti. La nostra battaglia va avanti, sia con l’emendamento alla legge di Bilancio sia con la pdl di iniziativa popolare”, ricorda al Fatto la senatrice M5s Maria Castellone. Un mese fa le opposizioni ci avevano provato anche con un emendamento al ddl lavoro, ma la maggioranza ha sbarrato la strada anche a quello. “Applichiamo già di fatto la direttiva promuovendo la contrattazione”, dice FdI ribadendo la linea di sempre. Secondo il governo, la questione non si pone perché, nel rispetto della direttiva Ue, l’Italia supera il target del 70 per cento di rapporti di lavoro già coperti dalla contrattazione collettiva, affidando a questa la retribuzione “equa e sufficiente”, per citare la proposta di delega.

La maggioranza parla dell’80 per cento di copertura, ma la percentuale andrebbe verificata. “Non siamo in grado di calcolare in maniera puntuale la percentuale di copertura dei ccnl, né di verificare se le imprese che dichiarano di applicare un contratto pagano minimi contributivi allineati”, spiegava al Fatto già nel 2022 Claudio Lucifora, professore di Economia del lavoro alla Cattolica di Milano e allora consigliere del Cnel. Che avvertiva: “Rischiamo di essere messi in mora da Bruxelles“, che chiederà di quantificare quella quota con precisione. Ma qual è la retribuzione “equa e sufficiente” che ha in mente la maggioranza? La condizione economica minima da riconoscere ai lavoratori è il trattamento complessivo minimo del contratto più applicato, concetto controverso che ha sostituito quello di contratto firmato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, presente invece nella proposta delle opposizioni. La differenza è sostanziale, perché a far trasformare un contratto nel più applicato per un’intera categoria può bastare l’accordo tra i datori di lavoro e un sindacato compiacente. Alla faccia dei controlli sui contratti pirata di cui dovrà occuparsi il governo, quando non si sa.

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