Giornalista, docente di giornalismo alla Sapienza
Mondo - 23 Ottobre 2024
Meno di due settimane al voto Usa e l’incertezza ‘si taglia con il coltello’, come si diceva un tempo della nebbia in Val Padana. Un sondaggio del Washington Post con la Schar School lo conferma: Kamala Harris, candidata democratica, e Donald Trump, candidato repubblicano, sono testa a testa negli Stati in bilico, sette, dove la corsa si deciderà.
L’angoscia per i conflitti in Medio Oriente e in Ucraina e gli spettri del 6 gennaio 2021 aleggiano sul voto, mentre la campagna scivola nel volgare e nel triviale, soprattutto – anzi, esclusivamente – ad opera di Trump. L’inezia della corsa, una settimana fa favorevole al magnate, sembra essersi riequilibrata: Harris trae qualche vantaggio dalle cadute di stile, non infrequenti, del rivale.
I due rivali giocano i loro assi: Kamala farà comizi con gli Obama, prima Barack, poi Michelle; The Donald conta su Elon Musk, che s’è inventato una lotteria da un milione di dollari al giorno per chi si registra per votare il magnate in Pennsylvania, e sta per riavere accanto Steve Bannon, suo guru della campagna 2016, che uscirà di prigione martedì 29 – fra pregiudicati ci s’intende.
I nostradamus continuano ad attribuire 226 Grandi Elettori sicuri, o quasi, a Harris e 219 a Trump, lasciandone però fluttuanti 93: per esserne eletti, bisogna averne 270 su 538. Gli Stati incerti sono Pennsylvania (19 Grandi Elettori), Michigan (15) e Wisconsin (10) nella Rust Belt; North Carolina 16 e Georgia 16 nel Sud; Arizona 11 e Nevada 6 all’Ovest.
Un’analisi della Cnn, intitolata “Quel che molti stranieri non possono capire”, spiega bene quel che è appunto incomprensibile a molti europei, cioè che tanti americani possano votare Trump nonostante le sue fanfaronate, le sue menzogne, le sue volgarità. E il New York Times spiega perché gli sforzi di Harris di intercettare i voti repubblicani moderati, ad esempio facendo campagna con Liz Cheney che pure è un falco in politica estera, non stiano finora avendo successo. Perché, forse, gli elettori repubblicani moderati non ci sono, in questa fase di forte polarizzazione della politica e della società negli Stati Uniti.
Torniamo al sondaggio, che mostra Trump avanti in Arizona e Harris ben piazzata in Georgia, ma con posizioni reciprocamente volatili e con un buon numero di elettori, specie sotto i 25 anni, tuttora indecisi e potenzialmente decisivi, visto che tutte queste corse si giocano al fotofinish.
Nel sondaggio del WP, condotto solo negli Stati in bilico, Harris e Trump sono entrambi al 47% delle preferenze, con Trump un punto indietro rispetto all’ultimo analogo rilevamento e Harris ben sei punti avanti rispetto all’allora candidato democratico Joe Biden. Harris sta dunque mostrando una competitività che Biden non aveva, non ancora sufficiente però a garantirle la vittoria.
Sui media liberal, fioccano le critiche alle sortite di Trump sessiste e volgari. Dal punto di vista elettorale, tutti questi articoli dicono l’ovvio a chi ne è già convinto, ma non spostano voti, perché nessun sostenitore di Trump legge o segue i media ‘mainstream’. Anzi, che i ‘giornaloni’ americani critichino l’ex presidente ne rafforza l’immagine presso i suoi sostenitori. La stessa cosa avviene quando la giustizia lo persegue per i suoi reati.
Secondo Politico, che ha intervistato diplomatici e funzionari dell’Unione europea, l’Ue si attrezza per rispondere “colpo su colpo” a una eventuale guerra commerciale transatlantica scatenata dalla rielezione di Trump: “Risponderemo in fretta e risponderemo duro”, è l’atteggiamento prevalente. Da verificare, naturalmente, alla prova dei fatti.
Le guerre complicano, però, lo scenario per i democratici, specie quella in Medio Oriente, che Harris sperava s’avviasse a conclusione dopo l’uccisione, nella Striscia di Gaza, del leader di Hamas Yahya Sinwar e che invece non s’attenua: il premier israeliano Benjamin Netanyahu contribuisce ad alimentare l’immagine d’impotenza dell’amministrazione Biden, nell’intento esplicito di favorire l’amico Trump.
Domenica 20 ottobre, Kamala Harris, nel giorno del suo 60esimo compleanno, ha fatto sermoni in chiese della Georgia: gli americani, con il loro voto, devono decidere – ha detto – in che Paese vogliono vivere, uno di “caos, paura e odio”; oppure uno di “libertà, compassione e giustizia”.
Fra i fondamentalisti religiosi, molti considerano Harris uno “spirito di Jezabel”, un personaggio della Bibbia malvagio, una principessa fenicia moglie di un re d’Israele, che venerava i propri dei e perseguitava i profeti e che per questo fece un’orribile fine. I fondamentalisti danno alla definizione un’eco demoniaca, con implicazioni profondamente razziste e misogine. Trump li asseconda, con un linguaggio poco biblico. Parlando a Latrobe, in Pennsylvania, definisce testualmente la sua rivale “una vicepresidente di merda” e ne storpia ripetutamente il nome. Poi, visitando un McDonald’s, mette in dubbio che Kamala ci abbia mai lavorato, mentre testimoni confermano che, da studentessa, fece la la commessa in un McDonald’s in California.
Per il Financial Times, il comizio di Latrobe alimenta dubbi sulla lucidità dell’ex presidente, che riserva un lungo tributo ad Arnold Palmer, campione di golf del passato originario di lì. Trump, però, non trova di meglio che soffermarsi sulle dimensioni dei genitali di Palmer. Sui social, fioccano i commenti hard.