Usa, i “5 di Central Park” accusano Trump di diffamazione. Il team del tycoon: “Interferenze elettorali dei disperati di sinistra”

4 settimane fa 69

Nel 1989, Donald Trump era ben lontano dall’intraprendere la carriera politica con i Repubblicani per divenire presidente degli Stati Uniti, ma su certi temi aveva già le idee chiare. Il 19 aprile, Trisha Meili, 29 anni, uscì per una corsa serale a Central Park: fu aggredita e stuprata. Quando la ritrovarono, era in ipotermia, tanto che, portata in ospedale, gli fu data l’estrema unzione. Ma Trisha si salvò, anche se dopo la violenza subita, non ricordava nulla. Quella stessa sera, un gruppo di 30 ragazzi dei sobborghi aveva fatto una scorribanda nel polmone verde della Grande Mela, prendendo di mira e rapinando chi capitava.

Le indagini sullo stupro puntarono su cinque giovani: Donald Trump comprò una pagina del New York Times per sollecitare il ripristino della pena di morte e scrisse: “Odio questi ladri, questi assassini. Dovrebbero essere costretti a soffrire e, quando commettono un omicidio, dovrebbero essere giustiziati per i loro crimini. Sarà da esempio per gli altri, così ci penseranno due volte prima di commettere un crimine o un atto di violenza”. Nel 2024, lo scontro tra i “5 di Central Park” – così furono ribattezzati gli arrestati – e il tycoon, torna di attualità. Yusef Salaam, Antron McCray, Kevin Richardson, Raymond Santana e Korey Wise hanno avviato una causa per diffamazione nei confronti del candidato conservatore alla Casa Bianca, accusandolo di “dichiarazioni false e diffamatorie”, pronunciate nell’unico confronto con la candidata democratica Kamala Harris, il mese scorso.

Nella denuncia viene sottolineato che Trump “ha dichiarato falsamente che i querelanti hanno ucciso un individuo e si sono dichiarati colpevoli del crimine. Queste dichiarazioni sono false, come è dimostrabile”. Uno dei loro avvocati, Shanin Specter, ha detto all’Associated Press che i suoi clienti “si sono sentiti diffamati dinanzi a 67 milioni di persone”. La vicenda dei “5 di Central Park” per la comunità afroamericana e ispanica è un paradigma – a loro parere – di come la giustizia vada in una sola direzione, quando c’è da accusare ragazzi non bianchi. Tanto che, sull’onda del movimento Black Lives Matter, Netflix ha riproposto la vicenda, raccontata in una serie dal titolo “When they see us”. Sceneggiature televisive a parte, le cronache riportano che, ancor prima del ritrovamento di Trisha mezza morta, la polizia aveva arrestato venti giovani per la scorribanda a Central Park.

L’attenzione si focalizzò su sei di loro: il 21 aprile, dopo averli trattenuti per un giorno intero, gli investigatori di Manhattan registrarono in video la confessione di McCray, Santana e Richardson; erano minorenni, dunque fu necessaria la presenza dei familiari. Anche Wise ammise il delitto, solo Lopez in video disse di non aver mai avuto contatti con Trisha. Da quel momento iniziò la battaglia legale; i “5 di Central Park” furono condannati per stupro. Ma nel 2002 Matia Reyes, un detenuto nello stesso carcere dove si trovava Wise, confessò di aver aggredito e violentato una ragazza nel parco, la sera del 19 aprile 1989. La Corte suprema annullò le condanne e nel 2003 i cinque fecero causa alla città di New York, chiedendo un risarcimento di 250 milioni di dollari. Undici anni dopo, la conclusione del braccio di ferro, con il pagamento di cifre tra i 7 e i 12 milioni di dollari.

Trump non si pentì mai di quella pagina comprata sul New York Times, e a due settimane dal voto per la Casa Bianca lo scontro tra il tycoon e i “5 di Central Park” si rinnova. Durante il dibattito televisivo con Kamala Harris, il 10 settembre, Trump è tornato sulla vicenda: “Hanno ammesso, hanno detto di essersi dichiarati colpevoli e io ho detto, ‘beh, se si sono dichiarati colpevoli hanno ferito gravemente una persona, hanno ucciso una persona alla fine’ … E si sono dichiarati colpevoli, poi si sono dichiarati non colpevoli”. Partita la denuncia di coloro che oggi sono identificati come Exonerated Five, tra cui Salaam, che è consigliere comunale a New York, i responsabili della campagna di Trump hanno minimizzato la questione.

Steven Cheung – il team manager di The Donald – l’ha definita “una interferenza elettorale, intentata da disperati attivisti di sinistra, nel tentativo di distrarre il popolo americano dal programma pericolosamente liberale di Kamala Harris”. I cinque hanno fatto campagna per Harris e partecipato alla convention democratica in agosto. I confini dello scontro politico e giudiziario sono dunque tracciati: ci sono due schieramenti e due correnti di pensiero. Il resto, tra cui la verità, è una opzione.

Community - Condividi gli articoli ed ottieni crediti
Leggi tutto