Alfa: «La fama è tossica, mi fermo sei mesi e mi godo la mia età: questo sistema ti stritola»

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A febbraio lo abbiamo visto in gara al Festival di Sanremo con la sua Vai!. Da gennaio ad oggi ha collezionato sei Dischi di platino e quattro Dischi d’oro. Ora ha appena pubblicato un nuovo singolo, Il filo rosso, che partendo da TikTok è arrivato a conquistare le classifiche: questa settimana è al secondo posto in quella dei singoli più streammati e scaricati in Italia, dietro a Per due come noi di Olly e Angelina Mango.

Il 16 novembre, intanto, partirà da Roma il suo nuovo tour nei palasport. Altri a quest’ora sarebbero già in pieno egotrip. Alfa, vero nome Andrea De Filippi (nessuna parentela con Maria), 24 anni, invece tiene i piedi piantati a terra: «Ho un pessimo rapporto con il successo. Mi spaventa. Ecco perché cerco di non farmi intossicare da informazioni come i dischi d’oro e gli stream», dice. 

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Cosa le fa paura del successo?
«Che possa finire tutto da un momento all’altro. Il sistema ti stritola. Oggi l’industria discografica si basa sulla moda. La cosa più brutta che ha portato il rap è proprio questa. Non si ascolta più una canzone tramite il passaparola, ma solo perché è di tendenza, per paura di essere emarginati e di sentirsi diversi. Le case discografiche mettono sotto contratto 800 ragazzini l’anno, che poi finiscono per impasticcarsi dopo essere stati spremuti, accartocciati e buttati via. Io sono fortunato». 

Perché?
«Lavoro con una piccola etichetta indipendente (Artist First, ndr). Rispettano i miei tempi. Ho deciso che non tornerò a Sanremo nel 2025 perché non sono emotivamente pronto per sostenere altri otto mesi come gli ultimi. Ho 24 anni, da sei pubblico una canzone ogni due mesi. Mi sento incastrato. A me questa roba non piace più: dopo i palasport voglio prendermi sei mesi per godermi la mia età».


L’industria, per come è fatta oggi, consente a un artista di fermarsi per sei mesi?
«No, ma la gente sì. Il pubblico non è stupido: è più intelligente di quanto non si pensi. Io sono convinto che i miei fan mi aspetteranno».


È con loro che ha scritto “Il filo rosso”. Li ha accreditati tutti come co-autori?
«No, no. Sono pur sempre genovese (ride). Dopo Sanremo ho sentito che stava diventando tutto troppo istituzionale per i miei gusti. Così un mesetto fa mentre lavoravo a questo brano ho iniziato a farlo sentire su Instagram mentre era ancora poco più di una bozza. È diventata virale prima dell’uscita. Tutti mi chiedevano di finirla, così ho chiesto ai fan di darmi una mano».


La canzone parla di relazioni a distanza. Ne ha avute?
«Sì, una. Lei era di New York».


Come l’ha conosciuta?
«Era venuta in vacanza a Genova con i suoi genitori. Il classico colpo di fulmine. Avevamo 16 anni. Sono andato pure a trovarla lì. Naturalmente non poteva durare molto: quattro mesi. Troppo complicato. Oggi non ci sentiamo più».


Il segreto del successo qual è?
«L’autenticità. Quando ho capito che la mia scrittura stava diventando troppo autoreferenziale, che parlavo troppo di me, ho abbassato l’ego. Voglio scrivere delle bombastic songs».

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Scusi?
«È un’espressione che ho “rubato” a Cesare Cremonini, che l’ha usata in un’intervista in cui spiegava di aver svoltato quando ha iniziato a scrivere canzoni-inni come Logico, che parlano di temi universali: ambisco a quel tipo di scrittura».


Tananai dice: «Con le mie canzoni voglio trasmettere gentilezza. Non mi sono mai sentito un maschio alfa e non ho mai dovuto esasperare il mio testosterone». Si iscrive anche lei al partito degli alternativi alla misoginia e al sessismo dei rapper?
«Sì. E spero che quella tendenza stia finendo. Lo dico da fan della trap. Negli ultimi anni mi è capitato solo un paio di volte di ascoltare qualcosa di originale. Per il resto, trovo tutto troppo ridondante: sembra musica fatta con l’intelligenza artificiale. E poi oggi sembra più importante il contorno: la moda, il gossip. Mi fa schifo. Bisogna riportare al centro le canzoni».

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