diAldo Cazzullo
La scrittrice e gli anni a fianco di Moravia: «Dopo il telegiornale usciva da solo. Elsa Morante era felice di me»
Carmen Llera Moravia, qual è il suo primo ricordo?
«Credo sia un falso ricordo: i primi passi, e la paura della luna».
Perché della luna?
«Quando mia mamma usciva, chiedevo a mio padre dove fosse finita, e lui mi rispondeva che se non stavo brava la luna l’avrebbe portata via. Ero terrorizzata da quella luna che mi avrebbe potuto rendere orfana».
Lei è nata a Tudela, Navarra, Spagna.
«In casa ero la più piccola. Prima di me c’era una sorella, Rosa, con gli occhi azzurrissimi: era annegata in un canale. Era uscita con i fratelli e non era mai più tornata, e quel trauma i miei fratelli se lo sono portati dentro per tutta la vita».
Suo padre Lorenzo era franchista?
«Era il sindaco di un paese vicino, ma non faceva politica. Aveva combattuto la guerra civile con il generale Mola, ma alla fine non aveva voluto restare nell’esercito, non sopportava le gerarchie. Con mia madre Severina si erano incontrati proprio a Guernica».
Com’era sua madre?
«Molto alta, diversa dalle donne della Navarra. Viveva con gli zii Carmen e Moisés. Forse ho radici ebraiche, anche se per restare in Spagna gli ebrei storicamente hanno dovuto convertirsi o nascondere la loro fede. Diventare marranos».
Com’era la Spagna franchista?
«Del regime quasi non mi accorsi. A dieci anni mi mandarono dalle suore della Compagnia di Maria, la versione femminile dei gesuiti. Loyola è vicina alla mia terra, sono sempre stata legata a sant’Ignazio, a Roma entro sovente nella sua chiesa».
Le suore erano severe?
«Ma no, ci portavano a vedere il Tour de France, quando passava da Pamplona. Io impazzivo per Poulidor, che arrivava sempre secondo: ogni volta gridavo il suo nome, un anno lui mi fece un saluto…».
La fine della dittatura? La movida?
«Divenni molto attiva fra i giovani socialisti, conobbi Alfonso Guerra, il vice di Felipe Gonzalez, Enrique Baron e altri. Ma nel novembre 1977 ero già in Italia: lettrice all’università di Palermo. Sull’aereo mi trovai di fianco Salvo Lima, che mi offrì un passaggio in città; solo dopo capii chi fosse. Dalla Spagna venne a tenere una conferenza Julian Marias, il padre di Javier Marias, un amico che mi manca molto. Ancora gli parlo».
Parla con Javier Marias?
«È morto così presto… Quando passo davanti all’albergo in cui scendeva a Roma, vicino al Pantheon, gli chiedo: Javier, dove sei? E rileggo i suoi libri. Grandissimo scrittore. Ormai sono una ri-lettrice».
Torna ancora in Navarra?
«L’ultima volta nell’estate del 2003, quando se ne andò mio padre. Aveva tentato tre volte il suicidio, senza riuscirci. Morì a 91 anni, di niente. Gli avevo telefonato da Sabaudia, e mi aveva detto: sono stufo. Dopo poco mi chiamò mia madre per avvertirmi: papà è morto. Presi l’aereo per Madrid, c’erano 43 gradi, arrivai a Tudela, entrai nel tanatorio — in spagnolo si dice così, un nome molto più bello di obitorio —, l’avevano messo nel ghiaccio…».
Come incontrò suo marito, Alberto Moravia?
«Era il 1980, stavo lavorando alla mia tesi sui rapporti tra cinema e letteratura. Andai a Sabaudia da Graziella Chiarcossi, la cugina di Pasolini, moglie di Vincenzo Cerami. Vidi anche la madre, Susanna, che aveva recitato la parte della Madonna nel “Vangelo secondo Matteo”. E incontrai Moravia. Da tempo non stava più con Dacia Maraini. Gli chiesi di Buñuel, che avevo conosciuto e che Alberto da presidente della giuria aveva premiato a Venezia per “Belle de jour”, il film con Catherine Deneuve. Cominciammo a parlare, e non ci siamo più lasciati».
Quando vi siete sposati?
«Il 27 gennaio 1986, dopo la morte di Elsa Morante, che non gli aveva mai concesso il divorzio. Eravamo appena tornati dallo Zimbabwe. Io avevo 32 anni, lui 78».
La Morante l’ha conosciuta?
«Sì. Stava già male, ma era felice che ci fosse una giovane donna spagnola accanto al suo ex marito».
Lei Carmen era già stata sposata.
«A 18 anni, con il mio professore di filosofia, da cui ho avuto il mio unico figlio, Héctor. Mio padre era contrarissimo, fu allora che tentò per la prima volta di togliersi la vita. Diceva che la mia era solo un’infatuazione. Non aveva torto».
Ora Bompiani ripubblica un suo libro di successo, “Uomini”, in cui scrive di non aver mai perso la testa per amore. Neppure per Moravia?
«Alberto l’ho amato perché è stato l’unico a non tentare di cambiarmi. Era così intelligente da capire e accettare la mia natura. Mi diceva sempre: “Io morirò e tu sposerai un altro”. “Ti sbagli” rispondevo. Infatti si sbagliava: non mi sono mai più sposata. Sto così bene da sola».
Però c’è un brano di Moravia in cui lui si lamenta delle sue fughe, di averlo piantato in asso in aeroporto…
«Il problema è che Alberto adorava l’Africa, e io la detestavo. Così a volte lo lasciavo lì e tornavo a casa. Preferisco il Medio Oriente».
Celebre la sua storia con Walid Jumblatt, capo dei drusi libanesi. I giornali lo chiamavano «l’indruso», con la d.
«Ci incontrammo a Stoccolma, sotto la neve, ai funerali di Olaf Palme, c’erano anche Arafat e Indira Gandhi. Poi ci rivedemmo a Damasco. Ci sentiamo ancora. Adesso ha lasciato il suo ruolo al figlio».
È vero che Moravia chiese di assistere ai vostri amori?
«No! È vero che usava la gelosia per creare: i racconti de “La cosa”, “La donna leopardo”…».
E lei era gelosa?
«Se lo fossi stata, sarei impazzita: Alberto era molto corteggiato, attrici e scrittrici venivano a trovarlo a casa… La sera dopo il Tg lui usciva, e io andavo a dormire. Da sempre mi alzo alle 5 ed esco all’alba».
Com’era la vita con lui?
«Meravigliosa. Qualcuno pensava fosse burbero; invece era solo timido. In privato era molto divertente. Guidava un’auto speciale, una Renault con i pedali invertiti, a causa della sua zoppia, poi sostituita da una Lancia Delta. Andavamo al cinema Capranica, mollava la macchina lì davanti, arrivava il poliziotto di guardia a Palazzo Chigi, e lui sorrideva: “Dove possono parcheggiare gli sciancati?”. Nessuno osava mandarlo via. Ogni tanto si arrabbiava perché buttavo via le sue carte, anche le recensioni dei film per l’Espresso; allora si chinava nel cestino e ricomponeva i fogli stracciati…».
Morì mentre si faceva la barba.
«Io non c’ero, ero in Marocco, Alberto doveva venire a prendermi all’aeroporto. Fu mia mamma ad avvisarmi. Andai direttamente alla camera ardente in Campidoglio».
Nel libro a un certo punto c’è la descrizione di Craxi: un uomo di potere grande e grosso, che abita all’ultimo piano di un albergo.
«La donna di quel racconto non sono io. Craxi l’ho conosciuto al matrimonio di Marina e Carlo Ripa di Meana, e l’ho rivisto al funerale di Alberto. Non bisogna prendere alla lettera quello che ho scritto…».
Neppure quando descrive il torinese alto e magro?
«Anche Fassino l’ho conosciuto dopo che è uscito il libro» (Carmen sorride).
Lei scrive del fascino degli uomini israeliani, anche se li definisce «prepotenti e arroganti».
«Non li conoscevo ancora bene. Quello è solo l’aspetto esteriore. Hanno fatto tutti il servizio militare per tre anni, possono sembrare rudi, squadrati, ma è solo un’apparenza. Li amo molto».
Chi è il suo scrittore israeliano preferito?
«Amos Oz. Un kibbutzim. Lasciò il suo kibbutz per proteggere la salute del figlio asmatico, si trasferì nel deserto del Negev. Amos era un uomo di una bellezza incredibile, gli occhi chiari… Anche ad Alberto piaceva».
Che idea si è fatta di questa guerra?
«Hamas non va confusa con il popolo palestinese. Non sopporto Netanyahu. Ma l’Occidente non può abbandonare Israele».
Lei ha conosciuto bene Dominique Strauss-Kahn.
«Uomo intelligente, di straordinaria competenza, che ha distrutto la sua stessa vita. Sarebbe diventato presidente della Francia».
Era ossessionato dal sesso?
«Si può amare il sesso senza perdere la razionalità».
Wikipedia le attribuisce pure una storia con Fiorello.
«Abbiamo negato entrambi! Gli avevo solo dato un passaggio in moto…».
Schlein o Meloni?
«Sono di sinistra e la Schlein mi piace, anche per il suo aspetto irregolare, androgino».
Crede in Dio e nell’aldilà?
«No. Mi viene in mente una battuta di “Marx può aspettare”, il film di Marco Bellocchio, che conosco da quando frequentava Sabaudia negli anni 80: “Sarebbe bello rivedere papà e mamma nell’aldilà, ma ci saranno miliardi di persone, una confusione incredibile, come faccio a trovarli?».
«Nessuna lingua ha saputo darmi tanto piacere, nessuna mano tanto conforto, né mai uno sguardo mi ha divertito tanto. Dove sei?». Anche questa frase del suo libro non ha un destinatario reale?
«No. Quella frase è per Alberto Moravia».
12 maggio 2024
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