Casoria, intervista a suor Simona Biondin: «Minori difficili, tocca a noi insegnare la strada giusta»

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«Il mio impegno per questi ragazzi non nasce a caso. Dio è relazione ed è il cuore che detta legge. Noi educatori abbiamo il compito di ascoltare questi ragazzi e di non lasciarli soli. Di fronte alla morte del ragazzo di 15 anni a Napoli vuol dire che, ancora una volta, siamo noi a dover insegnare a questi minori la strada giusta». Suor Simona Biondin, napoletana di nascita e laureata all’Orientale, ma torinese d’adozione riceverà oggi a Roma presso la Suprema Corte di Cassazione il premio Francesco De Sanctis Diritti umani per l’impegno a favore dei minori a rischio di Napoli e della Campania.

A scrivere la motivazione per il riconoscimento è stato il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, che parlando della religiosa sottolinea: «La sua capacità di unire visione strategica, competenza pedagogica, sensibilità sociale e leadership innovativa fa di suor Simona Biondin una figura di riferimento nel panorama dell’educazione e dei diritti umani in Italia». E ancora: «Il suo impatto si estende ben oltre le aule e i centri di formazione, toccando la vita di innumerevoli individui e comunità e contribuendo a plasmare un futuro più giusto e solidale per tutti».

Come si sente di fronte a una motivazione del genere?
«Non posso dirlo io. Comunque il merito va a chi mi ha preceduto nella direzione dell’ente che guido a Torino, suor Giustina. Lo dedico a lei, vera figlia della carità, che ha speso la sua vita per i poveri».

Anche lei ha speso la sua vita e continua a farlo per i minori più disagiati a Napoli e in Campania. Quando è nato questo impegno?
«Abbiamo iniziato in piena pandemia, nel 2020, con un centro di istruzione e formazione a Chiaia destinato ad adolescenti a rischio dispersione. Dai 40 ragazzi iniziali oggi ne abbiamo 300, per la precisione 319 che attualmente sono con “zero” dispersione».

Da dove arrivano?
«Non solo da Chiaia e Mergellina ma dalla Sanità, dai Quartieri Spagnoli, dal Rione Traiano, dal Pallonetto».

Da quali contesti familiari provengono?
«Ovviamente difficili. Le mamme sono sole e hanno la responsabilità di seguire i figli e portare avanti la famiglia, perché i mariti sono in carcere. Ecco perché noi come centro offriamo anche un grosso supporto alla genitorialità».

Lei ha aperto un centro educativo anche nell’area nord.
«A seguito dei gravi fatti di Caivano è nata l’idea di replicare il modello di Napoli anche a Casoria. Sono stata convocata dal presidente della Regione Vincenzo De Luca e a settembre abbiamo inaugurato a Casoria un ecosistema formativo dove ci sono già 50 iscritti, ma stiamo per accogliere altri 144 ragazzi dispersi della scuola media inferiore. Progetti che sia a Napoli che a Casoria, inclusi i trasporti, sono finanziati interamente dalla Regione».

Che tipo di attività svolgete?
«Anzitutto i nostri percorsi durano 4 anni e i ragazzi escono diplomati. Vengo da Torino, dove sono direttrice di un grosso ente e da quell’esperienza ho portato qui il mio modello educativo. Puntiamo a far acquisire ai ragazzi competenze per poi farli accedere a un percorso universitario. I nostri sono percorsi strutturati e complessi, che cerchiamo di rendere loro semplici».

Quando si tengono le attività?
«Si comincia al mattino e si finisce al pomeriggio. Se i ragazzi non vengono a scuola, i loro tutor li vanno a prendere a casa, tirandoli giù dal letto se necessario. Il team (che comprende 52 docenti tra Napoli e Casoria) prevede uno psicologo, un tutor e un educatore, perché i nostri utenti provengono da contesti familiari e socio-culturali disagiati».

Quali?
«Serviamo tanti quartieri difficili. Abbiamo baby gang che provengono da Pallonetto e Torretta, ma evitiamo che si scontrino con quella che chiamo opera di evangelizzazione dei conflitti. Si deve partire dal loro vissuto di violenza e insegnare che vi possono essere strategie alternative per confrontarsi. Gioca molto il legame che instauriamo con loro, si affezionano, acquistano fiducia e capiscono l’errore».

Dopo la morte di Emanuele Tufano cosa c’è da fare ancora secondo lei?
«Questi ragazzi non devono essere lasciati soli, ma soprattutto bisogna aiutarli ad azionare il cervello. Loro sono per così dire allo stato brado, col mito del motorino, delle armi, della violenza. Sta a noi insegnare loro a stare al mondo senza farsi troppo male».

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