Cop29, il forfait di Usa e Ue spiana la strada alla Cina. Così il primo inquinatore mondiale guiderà la via anche su energia pulita e investimenti green

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Pechino ha la sua occasione. E a lasciargliela sono stati Stati Uniti ed Europa. La Cina fa la parte da protagonista alla Cop29 in Azerbaigian, approfittando dell’assenza di Biden a Baku e del ritorno di Trump alla Casa Bianca, ma anche della disattenzione che hanno mostrato verso la Cop diversi leader, in primis quelli europei: dalla presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen al presidente francese Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Olaf Scholz. Un paradosso, dato che la Cina oggi è il Paese che più inquina al mondo, responsabile di oltre il 30% per cento delle emissioni globali di anidride carbonica pur non essendo prima né nella classifica degli emettitori storici, né in quella delle emissioni pro-capite. Gli ultimi dati sono quelli del Global Carbon Budget arrivati proprio nei giorni della Cop. Nemmeno il presidente cinese Xi Jinping dovrebbe andare a Baku, ma ha inviato il vice, Ding Xuexiang, e Pechino sembra voler raccontare un’altra storia rispetto a quella che il mondo era abituato a sentire e vedere alle Cop precedenti. Quelle in cui bisognava ricordare al Dragone che solo sulla carta è ancora tra i Paesi in via di sviluppo, perché la lista Unfccc dei paesi ricchi è quella stilata nel 1991 e solo per questo non include la Cina, le monarchie del Golfo e altre economie emergenti. Nel frattempo, però, Pechino è diventata una superpotenza inquinante e, come tale, deve finanziare quelli più poveri nella transizione, nell’adattamento e nelle perdite e i danni che gli effetti dei cambiamenti climatici stanno producendo. Oggi, però, alla Cina non bisogna più ricordarlo. Alla Cop29, per la prima volta, Pechino discute dei finanziamenti per il clima per i Paesi in via di sviluppo con un approccio da Paese sviluppato. “E cerca di insinuarsi in un vuoto di leadership sui negoziati climatici” spiega a ilfattoquotidiano.it Sara Benedetti Michelangeli, analista internazionale di Strategic Perspectives, think tank di Bruxelles.

La Cina emette di più, ma Usa e Russia la battono sui dati pro-capite – Sul fronte delle emissioni, parla chiaro il Global Carbon Budget 2024, curato da oltre 80 istituzioni scientifiche di tutto il mondo. La Cina rappresenta il 32% delle emissioni globali di CO2, ma questo dato non va letto da solo. Come ha spiegato pochi giorni fa l’Emission Gap Report dell’Unep, se la media globale delle emissioni pro-capite è 6,6 tonnellate di CO2 all’anno, la Russia è a 19 tonnellate, gli Usa a 18, la Cina a 11 e in Ue si scende a 7,3 tonnellate di anidride carbonica all’anno per ogni cittadino. Ergo: la Cina inquina di più perché ha un miliardo e 400 milioni di abitanti. Non solo. Un anno fa Carbon Brief ha calcolato le responsabilità sulle emissioni storiche. Al primo posto ci sono gli Stati Uniti (21% delle emissioni totali) e al secondo la Cina (12%). Tornando ai dati del Carbon Budget, quindi alle emissioni attuali e alla loro evoluzione, la Cina chiuderà il 2024 con un aumento dello 0,2% dovuto al gas naturale (+8%) e al carbone (+0,3%), mentre calano le emissioni legate al petrolio (-0,8%) e al cemento (-8,1%). Se si guarda, però, a un periodo di tempo più lungo, le emissioni della Cina sono passate da un aumento del 7,5% del decennio 2004-2013 all’aumento dell’1,9% del decennio attuale.

Cosa fanno Stati Uniti ed Europa Gli Stati Uniti producono il 13% delle emissioni globali e chiuderanno il 2024 con un calo dello 0,6%, legato a quelli del carbone e del petrolio, ma con un aumento del gas naturale. Ma le emissioni Usa, calate nello scorso decennio dell’1,4%, dal 2014 si sono ridotte dell’1,2%. L’Ue, invece, è responsabile del 7% delle emissioni globali e dovrebbe ridurle del 3,8% nel 2024, soprattutto con il calo delle emissioni legate al carbone (-15,8%), ma anche del gas naturale (-1,3%) e del cemento (-3,5%). Le emissioni del petrolio, invece, salgono dello 0,2%. In questo caso, però, nell’ultimo decennio c’è stato un calo maggiore (del 2,1% rispetto al -1,4% del decennio precedente). Dal 2014 al 2023 sono 22 i paesi che hanno visto ridurre le loro emissioni in modo significativo (senza ridurre il Pil) e molti sono in Unione europea. Tra questi, per inciso, non c’è l’Italia.

La Cina va avanti (a prescindere da Trump) Cosa accadrà ora? Donald Trump è pronto a uscire dall’Accordo di Parigi. E, peggio ancora, dalla Convenzione quadro dell’Onu sui cambiamenti climatici (Unfccc) che nel 1992 diede il via alle Cop. La posizione di Trump sulle rinnovabili? “Drill, Baby, Drill”. Trivellare. Ma la vittoria del tycoon non avrà alcun peso sulle politiche cinesi che riguardano le rinnovabili. Perché Pechino è il Paese più inquinante al mondo, ma è anche quello che sta investendo di più sulle energie pulite. Come spiegato da Luca Bergamaschi, direttore e co-fondatore del think tank Ecco, “la Cina si muove sul fronte tecnologico per una questione di competitività, a prescindere dagli obiettivi climatici”. Pechino ha annunciato che raggiungerà il picco delle emissioni prima del 2030 e la neutralità carbonica prima del 2060. E c’è la firma di Pechino nell’unica iniziativa significativa portata avanti alla Cop29 dagli Stati Uniti, un accordo per accelerare l’azione sui tagli alle emissioni di metano e agli altri gas serra diversi dall’anidride carbonica.

La rivoluzione rinnovabile Ma Pechino punta soprattutto sulle rinnovabili. “Investimenti massicci in energie rinnovabili e progetti infrastrutturali senza condizionalità guidano le scelte della Cina” spiega Sara Benedetti Michelangeli. Nel 2022 il Dragone ha prodotto più energia pulita di qualsiasi altro Paese (2,6 milioni di GWh, quasi il triplo rispetto agli oltre 980mila degli Usa), ha venduto il 60% delle auto elettriche su scala mondiale, il 50% degli impianti eolici e il 45% di quelli solari. E si avvia a raggiungere il 60% di tutta la capacità rinnovabile installata al mondo entro fine decennio. La Cina è tuttora responsabile di circa il 70% delle emissioni globali di carbone, ma dal 2020 le installazioni annuali di eolico e fotovoltaico hanno costantemente superato i 100 gigawatt, tre o quattro volte gli incrementi di potenza per le centrali a carbone. E, per la prima volta, a giugno 2024 la potenza combinata di eolico e solare ha superato quella da carbone, stando ai dati della National Energy Administration (Nea). Ed ora che la Cina deve fare i conti con la sovra-capacità dei settori dell’energia pulita, da quello dei pannelli solari a quello dei veicoli elettrici, ma anche con i nuovi dazi da parte degli Stati Uniti e dell’Europa, diventa strategico trovare nuovi mercati in cui produrre energia rinnovabile. A iniziare da quelli dei paesi in via di sviluppo.

Finanza climatica, una nuova prospettiva Sarà anche per questo che Pechino sembra voler adottare un nuovo approccio anche sul fronte dei finanziamenti climatici. Alla Cop29 si cerca un accordo sul nuovo obiettivo quantificato collettivo (il New Collective Quantified Goal), che dal 2025 sostituirà quello precedente dei 100 miliardi all’anno da mobilitare (raggiunto solo nel 2022). Il gruppo africano di negoziatori ha proposto un obiettivo di 1,3 trilioni di dollari all’anno entro il 2030, appoggiato anche dal G77+Cina, uno dei principali gruppi negoziali, anche perché si tratta del maggiore blocco mondiale di Paesi (oggi sono 134, tra cui molti Paesi emergenti). La Cina vi partecipa come membro esterno. Nel suo discorso alla Cop29, il vice presidente cinese Ding Xuexiang ha dichiarato che dal 2016 Pechino ha mobilitato volontariamente 24,5 miliardi di dollari per la transizione dei Paesi in via di sviluppo. “Per la prima volta – sottolinea Ecco – la Cina fa riferimento ai finanziamenti per il clima per i Paesi in via di sviluppo con un approccio da Paese sviluppato e non con la logica della cooperazione Sud-Sud”. Quei 24,5 miliardi comprendono un’ampia gamma di investimenti da parte delle banche di sviluppo cinesi e di altri attori chiave. “La dichiarazione di Ding – aggiunge il think tank – riflette la capacità e la volontà della Cina di calcolare i propri contributi ai Paesi in via di sviluppo, ponendoli allo stesso livello – se non superiore – degli sforzi di molti Paesi sviluppati”.

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