«John Elkann non ha detto solo di no, ha detto no perché aspetto il tavolo del Governo. Temo che gli sfuggano dei fondamentali della Repubblica italiana». Stavolta l’affondo di Giorgia Meloni contro il presidente di Stellantis - «nato a New York e domiciliato in Olanda» come fanno notare tra i fedelissimi della premier - arriva direttamente su Rai 1. Sancendo un asse piuttosto inedito con l’intera opposizione e rinnovando in ogni caso la disponibilità ad un «dialogo senza sudditanze con Stellantis», Meloni contesta al dirigente la scelta di non partecipare all’audizione in Parlamento su Stellantis, preferendo difatti “limitare” la sua presenza ai faccia a faccia con l’esecutivo. «Ma sono due cose diverse» è la linea della premier che dal doppio salotto di Bruno Vespa scandisce: «Questa mancanza di rispetto verso io me la sarei evitata».
IL CLIMAX
Un’uscita, quella meloniana, che arriva al termine di un climax bipartisan che ha coinvolto non solo il presidente della Camera Lorenzo Fontana, i capigruppo di maggioranza o il ministro del Made in Italy Adolfo Urso, ma pure la segretaria del Pd Elly Schlein («Occorre stigmatizzarne l'atteggiamento), il leader del Movimento 5 stelle Giuseppe Conte («Qui non si tratta di avere qualcuno sul banco degli imputati ed esporlo al pubblico disonore, ma di trovare tutti insieme la possibilità di uscire fuori dalle difficoltà») e, ovviamente, il numero uno di Azione Carlo Calenda, da tempo in prima linea sulla vicenda Stellantis. «È un grave sgarbo istituzionale» l’attacco dell’ex ministro a Elkann, «verrà in Parlamento, insisteremo: ha il dovere di rispondere».
LA TELEFONATA
Poco prima che le dichiarazioni della premier rompessero totalmente il vaso di Pandora, il presidente di Stellantis aveva avuto una conversazione telefonica proprio con il leghista Fontana. L’obiettivo era quello di stemperare il clima rovente. Nella lunga telefonata aveva spiegato il no all’audizione in Parlamento, argomentando che «la risposta al presidente della commissione attività produttive Alberto Gusmeroli nasceva dall’osservanza della decisione della Camera di impegnare il governo, attraverso le mozioni approvate dall’aula, a identificare politiche industriali in linea con l’evoluzione del settore automotive». Una difesa debole, che è finita con l’essere considerata un pugno in faccia al Parlamento. Durante la telefonata Elkann ha ribadito «l’apertura al dialogo con tutte le istituzioni». Soprattutto ha assicurato che il gruppo non si «disimpegnerà dall’Italia».
A leggere bene però il percorso non è chiaro. Perché «Stellantis - dice il numero uno di Exor - rispetta e si adatta alle ambizioni di politica industriale scelte dai paesi dove opera», ma si impegna nel «rispetto delle regole poste dal legislatore a raggiungere i suoi obiettivi aziendali, sulla base dei fondamentali di mercato, dove la domanda guida l’offerta». Come dire che se la domanda non dovesse assorbire l’offerta, prevarranno le logiche aziendali. Alla faccia dei soldi pubblici per finanziare la Cig e i sostegni che negli anni ha ottenuto prima la Fiat e oggi Stellantis. Non scopre insomma le carte, rimandando alle parole dell’ad Carlos Tavares che, proprio in audizione, non aveva escluso licenziamenti in assenza di ulteriori incentivi del governo. Sullo sfondo resta lo spettro della chiusura di alcuni stabilimenti in Italia, di quelli che da mesi, come Mirafiori, Melfi e Cassino, marciano a scartamento ridotto, mentre le produzioni sono delocalizzate all’estero. Il 14 novembre tavolo al Mimit con Stellantis, sindacati e Anfia per affrontare la crisi.