Un mondo vivo, quello dei reperti archeologici, al centro di un racconto fatto di cronaca giudiziaria e giudizi estetici. A leggere le carte, si scopre la storia dell’archeologo francese bloccato dalla dogana di Napoli - anno 1983 - mentre rientrava a Parigi: aveva con sé una testa di Efebo tra i bagagli. Si limitò ad un’alzata di spalle - come raccontava il Mattino di quaranta anni fa -, dicendo di aver regalato 50mila lire a un contadino che custodiva l’opera in campagna, nel Vesuviano.
Poi c’è la vicenda del farmacista “tossico” di architettura che, nel marzo del 2000, venne denunciato dal Nas per un’accusa più unica che rara: «Assieme a un complice cedeva Roipnol e sostanze psicotrope a quanti gli portavano opere d’arte». Facile concludere che a casa del farmacista vennero trovati «manufatti archeologici», tra anfore e monili di età precristiana, saccheggiati dai siti archeologici del Casertano. Storie di ritrovamenti di opere d’arte rubate, conservate da anni negli scaffali del Mann, il Museo archeologico che dal 1969 è “custode giudiziario” dei proventi di saccheggi e traffici illeciti.
Uno scrigno unico al mondo. Parliamo dei “corpi di reato”, un patrimonio nascosto, su cui sono al lavoro i carabinieri del maresciallo Ilaria Marini, sotto il coordinamento degli aggiunti Pierpaolo Filippelli e Vincenzo Piscitelli, per conto della Procura di Nicola Gratteri, ma anche le archeologhe Maria Lucia Giacco e Serena Venditto. Inquirenti e ricercatori stanno lavorando a braccetto. Ma quali sono i casi riscoperti negli archivi del Mann?
L’agguato
Nei reperti alla base degli studi, spicca una storia che merita di essere raccontata. Un conflitto a fuoco - è il 23 febbraio del 1990 in via Panoramica a Ercolano -, quando la Mobile riuscì a impedire la fuga di una Fiat Ritmo zeppa di reperti rubati dal Museo Archeologico di Ercolano (custodi notturni vennero immobilizzati e imbavagliati). Attimi terribili, perché i banditi fecero fuoco, prima di dileguarsi nelle campagne vesuviane, lasciando alle proprie spalle un bottino che oggi - a distanza di 34 anni - è degno di spiccare in bella mostra in qualsiasi esposizione di arte antica. Cosa sbucò dal cofano della Ritmo? Un «cratere di campana del quarto secolo prima di Cristo», un «cratere a volute di produzione italiota (terzo secolo a.C.), una testa di cavallo e una “madre di Capua”, sempre di età pre cristiana».
Ma tra i più antichi reperti spicca una statua di marmo del secondo secolo d.C., usata per abbellire un condominio napoletano a Fuorigrotta: venne fuori nel 1928, durante i lavori di costruzione di rione Miraglia. Fu affidata ai carabinieri. Agli atti anche la ricompensa in denaro per «l’amministratore del condominio che avvistò per primo il busto di millennovecento anni prima». Ma la lista dei reperti ritrovati e finiti al centro di vicende giudiziarie è lunga e ricca di suggestioni, al punto che - in un’ottica di esposizione museale - ogni opera ritrovata sarà accompagnata da foto d’epoca, ritagli di giornale, stralci di ordinanze di custodia cautelare o di sentenze ormai definitive.
È in questa ottica che è prevista per dicembre una mostra al Mann, frutto del protocollo di intesa tra i vertici del museo e la Procura di Napoli: storie scritte da archeologi e carabinieri (quelli del nucleo di tutela del patrimonio culturale di Napoli oggi guidato dal maggiore Massimiliano Esposito), destinate ad uscire dagli scaffali e dagli archivi per diventare materia viva per studi, ricerche, inchieste.