7 Novembre 2024 19:33
Un team di ricerca statunitense ha stilato un elenco di parole e frasi – chiamate “parole mai” – che i medici non dovrebbero mai pronunciare ai pazienti e ai loro famigliari. Ecco quali sono e quali danni significativi possono arrecare.
Una comunicazione corretta è preziosa, non solo per coloro che fanno delle parole il proprio mestiere, ma anche per chi ha qualcosa di molto importante da dire, come un poliziotto che deve contattare la famiglia di una vittima di un incidente stradale, oppure un medico che deve interagire con pazienti affetti da malattie gravi e i loro parenti. Perché per quanto si possa essere capaci e competenti a maneggiare gli strumenti della propria professione, usare le parole sbagliate in contesti delicatissimi può fare un enorme differenza sulla sofferenza emotiva di chi riceve le informazioni. Ciò è particolarmente vero nell'ambito sanitario, dove affidiamo letteralmente la nostra vita in mano ai medici e dove una comunicazione negativa può porre un ostacolo insormontabile al processo decisionale condiviso. È proprio per questo che un gruppo di ricercatori ha deciso di stilare un elenco di cosiddette “never words”, parole mai, cioè parole e frasi che i medici non dovrebbero mai pronunciare quando comunicano con pazienti affetti da malattie gravi e con i loro famigliari.
A preparare le “parole mai” è stato un team di ricerca statunitense guidato da scienziati del Dipartimento di medicina polmonare e terapia intensiva dell'Henry Ford Hospital di Detroit, che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi della sezione di Insufficienza cardiaca avanzata e cardiologia dei trapianti – Unità di terapia intensiva cardiaca e della Scuola di Economia Mays dell'Università del Texas A&M. I ricercatori coordinati dalla dottoressa Rana Lee Adawi Awdish, specializzata in malattie polmonari e medicina d'emergenza, sottolineano che “intraprendere un dialogo sensibile e onesto con pazienti gravemente malati è diventata una sfida clinica ancora più grande con il rapido progresso nelle terapie per condizioni come l'insufficienza cardiaca avanzata, il cancro e la malattia polmonare allo stadio terminale”. “Comunicare la natura, lo scopo e la durata prevista di trattamenti spesso complessi, e stabilire aspettative realistiche su ciò che offrono, si scontra ancora con esperienze senza tempo dei pazienti: paura, emozioni intense, mancanza di competenza medica, dolore fisico e la speranza a volte irrealistica di una cura”, spiegano gli autori dell'elenco.
Oltre alla sofferenza fisica di una malattia grave, non va dunque sottovalutata nemmeno quella emotiva. Per questo gli autori dello studio hanno contattato moltissimi medici e analizzato modelli di conversazione per mettere a punto un elenco di “parole mai”, termini che i professionisti sanitari non dovrebbero mai utilizzare con i propri pazienti, anche quando la situazione è disperata. Il rischio di innescare dolore aggiuntivo, senso di impotenza, negare un proficuo processo decisionale condiviso e abbattere la fiducia verso la medicina è infatti molto elevato utilizzando parole a sproposito, espresse con un comunicazione fredda, spietata e insensibile. Non a caso, per quanto chiara e autorevole debba essere la descrizione di una patologia, anche delle più terribili, i ricercatori sottolineano che i medici devono impegnarsi in una “comunicazione compassionevole”, che fa parte del trattamento medico quanto la prescrizione di farmaci e terapie o l'esecuzione di determinati interventi. Dunque, quali sono le parole che i medici non dovrebbero pronunciare mai? Ecco l'elenco:
- “Non c'è altro che possiamo fare”
- “Non migliorerà"
- “Sospendere le cure”
- “Vuole che facciamo tutto noi?”
- “Combattimento” o “battaglia”
- “Non so perché ha aspettato così tanto per farsi vedere”
- “Cosa facevano/pensavano gli altri dottori?”
Per quanto concerne il cancro, sono state individuate tre ulteriori “parole mai” dalla professoressa Awdish e colleghi.
- “Non preoccupiamoci di questo adesso”
- “Sei fortunato che sia solo al secondo stadio”
- “Non hai superato la chemio”
Come spiegato dagli autori dello studio, queste parole e frasi rappresentano dei veri e propri ostacoli alla conversazione, ma soprattutto, “prendono il potere dagli stessi pazienti le cui voci sono essenziali per prendere decisioni ottimali sulla loro assistenza medica”. Oltre naturalmente a catalizzare la sofferenza emotiva in un momento già estremamente complicato (è difficile essere grati per avere un cancro "solo" allo stadio iniziale). Per tutte queste ragioni gli autori dell'articolo sottolineano la necessità che i medici, durante la loro formazione professionale, facciano dei veri propri corsi ad hoc sulla comunicazione, grazie a tutor esperti che possono consigliare frasi e parole utilizzate con profitto durante la loro esperienza professionale (indicando anche quelle che hanno deciso di non usare più).
Gli scienziati sottolineano inoltre che i medici dovrebbero incoraggiare i pazienti al dialogo, chiedendo loro se hanno domande. Innanzi a una situazione molto difficile, nella quale si ritiene che una malattia non migliorerà, secondo gli autori dell'articolo invece di usare un drastico “non ci saranno miglioramenti” e simili, i medici potrebbero dire “sono preoccupato che non migliorerà”. È una differenza sottile, ma che può avere un impatto completamente diverso. Anche i termini molto mediatici come “"combattere" contro il cancro – che rappresentano la malattia come una sorta di battaglia personale – possono essere molto controproducenti. Danno infatti alla forza di volontà il presunto potere di sconfiggere una brutta malattia, pertanto alcuni potrebbero apparire agli occhi degli altri come poco volenterosi e battaglieri, come se non si stessero impegnando abbastanza per guarire. La formazione con comunicatori professionisti può migliorare sensibilmente il rapporto tra medici e pazienti e attenuare le già enormi difficoltà che si affrontano in questi delicati contesti. I dettagli della ricerca “Never-Words: What Not to Say to Patients With Serious Illness” sono stati pubblicati su Mayo Clinic Proceedings.