Red Canzian. Basta fare il suo nome – in realtà nasce Bruno Canzian, a Quinto di Treviso, 73 anni fa, ma nessuno lo chiama così da una vita – e non c'è italiano che non lo associ immediatamente ai Pooh, il gruppo più longevo e popolare del nostro Paese. Di lui i fan dovrebbero sapere tutto, o quasi, ma è appena uscito un suo libro, Centoparole – Per raccontare una vita, con il quale Red prova ad aggiungere altro alla sua storia personale. Un lavoro che presenterà alle 18 del 5 novembre al Teatro de' Servi di Roma.
Perché ha scritto un'altra autobiografia dopo aver pubblicato nel 2012 “Ho visto sessanta volte fiorire il calicanto. La mia vita, i miei sogni”? Cosa racconta stavolta?
«Può sembrarlo, ma non è un'autobiografia. Ho avuto una bella vita e volevo solo far capire meglio perché mi è andata così bene».
Perché?
«Perché le mie giornate sono sempre state piene di sorrisi».
Detta così fa un po' ridere.
«Invece è così. Sono arrivato fin qui con l’aiuto di entusiasmo, meraviglia, gratitudine... Tutte parole potenti che ho selezionato per raccontarmi meglio. All'inizio erano 200, in ordine alfabetico, ma scrivendo mi sono accorto che alcune mi sembravano senza senso. Così le ho dimezzate, arrivando a 100. Vorrei che i giovani lo leggessero per capire che la vita è sempre un'avventura meravigliosa e mai un problema da risolvere. Lo dico perché alla mia età ne ho viste un bel po'».
Le peggiori?
«Tutte legate alla salute. Me la sono vista brutta nel 2015, quando ebbi la dissezione dell'aorta. Sentii un dolore fortissimo in petto e andai di corsa in ospedale. Il 40 per cento delle persone ci arriva morta, a me andò bene: dopo meno di due mesi ero di nuovo sul palco. Poi nel 2018 mi trovarono un tumore maligno al polmone e me ne asportarono un pezzo. E nel 2022 presi un'infezione da stafilococco aureo che per due anni mi ha costretto a prendere antibiotici. Per non parlare dell’incidente d’auto con Roby Facchinetti. Dopo un concerto, io e lui partimmo per Bologna perché da quelle parti era caduta la neve e volevamo andare a vederla. Uscendo da una galleria sull'Appennino, però, l’auto sbandò su una lastra di ghiaccio. Guidavo io e persi il controllo. Finimmo contro l'ingresso della galleria successiva».
Nel libro manca la parola “Morte”: perché l'ha sfiorata spesso o perché ormai nei confronti della prospettiva ha un distacco zen?
«Spero di incontrarla il più tardi possibile, ma non mi spaventa andarmene. Mi terrorizza l'idea di restare senza esserci più con la testa. Lo dico perché mia madre è morta a 98 anni, ma a 90 ha smesso di riconoscermi. Brutto non riuscire più ad avere un rapporto, uno scambio di parole... Insomma, temo il rincoglionimento, non la fine».
E quando sarà, mettiamo che Dio esista davvero, come si metterà per lei?
«Sarebbe bellissimo. Comunque, non credo di aver mai fatto del male a qualcuno. E non credo che una scopata in più sia un vero peccato».
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Con la parola “Critiche” scrive di Lucio Dalla e di Sanremo 2012, quando lui si presentò come direttore d'orchestra di Pierdavide Carone, in gara con “Nanì”, e fu ignorato da tutti: “La critica resuscita i morti, fa morire i vivi”. Ha conti in sospeso con i critici?
«No. Però in Italia per essere considerato il giusto spesso devi morire. Lucio, infatti, subito dopo - come meritava - entrò nella leggenda».
I Pooh, invece, ormai da anni sono stati pienamente riconsiderati e apprezzati da tutti, giusto?
«Sì. A partire dalla vittoria al Festival del 1990 (con Uomini soli, ndr). Fino ad allora nessuno voleva riconoscere il gran valore della nostra musica né il fatto di aver affrontato per primi temi come l'ambiente, l'omosessualità, la solitudine».
Fra le cento parole non compare “Politica”. È per questo che negli Anni ‘70 e ‘80 vi snobbavano?
«Esatto. Per quei colleghi che si schierarono fu tutto più semplice, ma per me un artista non deve farlo. È giusto che affronti temi importanti, ma poi il resto spetta ai politici».
Alla voce “Rock” rivendica la dignità culturale del genere: che ne pensa invece di rap e trap?
«Qualcuno di bravo ci sarà pure, ma non mi riconosco in questa musica fatta con le macchinette. E siccome evito di ascoltarla, non la giudico».
In poche parole oggi come si definirebbe?
«Un cacciatore di farfalle. Acchiappo questa follia che c’è nell'aria e fa funzionare le canzoni. Credo di aver trovato una modo per stare bene».
Da dove arriva questa consapevolezza?
«Da una splendida villa, senza i servizi, dove sono cresciuto nel bosco di Quinto di Treviso. Una coppia agiata anni prima la donò al Comune, che la dava come alloggio alle famiglie più povere. La mia era una di queste. Ci diedero due stanze. Ricordo che c'erano due saloni affrescati e un parco secolare con il fiume Sile vicino. Il mio mondo di riferimenti è in quella casa nel bosco. Eravamo poveri ma fortunati perché molto uniti e a contatto con la bellezza».
Che lavoro faceva suo padre?
«Il camionista. Si chiamava Giovanni e sapeva trasformare ogni piccola cosa in un dono della vita. Quando tornava dal Sud con un pezzo di caciotta, o le mozzarelle, per noi era una festa. Ci bastava poco».
E adesso?
«Anche meno. Da anni gioco in sottrazione, elimino tutto il superfluo perché mi crea solo stress. Cerco di stare solo con la gente che amo, nei posti che preferisco. Quando sono in tour con i miei fratelli Pooh è il massimo: mi segue mia moglie Bea, alla batteria c'è mio figlio Phil e a organizzare c'è mia figlia Chiara. Ho tutto quello che mi serve».
Ho letto che paragona il futuro a un magazzino pieno di sogni: il prossimo?
«Il 14 dicembre porterò in Cina il mio musical Casanova, la prima volta che succede per una produzione italiana, poi nel 2026 ci sarà il tour per i 60 anni dei Pooh, mentre ieri ho avuto una bella sorpresa: l'Antoniano di Bologna mi ha comunicato che il pezzo scritto per mio nipote Gabriel è stato ammesso in gara allo Zecchino d'Oro di quest'anno. Si intitola Il magico viaggio di Marco Polo. Io ho scritto le musiche, mentre i testi sono di Mario Gardini. E poi ci sarebbe la Fenice...».
Che c'entra?
«Vorrei che Venezia concedesse il Teatro La Fenice al mio Casanova per una settimana. Nel 2025 saranno 300 anni dalla nascita e credo di meritarmelo».
L'ha già chiesta?
«Certo. Mi hanno detto che per i musical devono valutare... La verità è che basta pagare e ci fai di tutto, anche una convention. Patty Pravo c’è stata. Aspetto e vedrò».
A proposito, è vero che a casa dei suoi genitori c'era un altarino omaggio a Santa Nicoletta Strambelli da Venezia?
«Nooo (ride, ndr). Ma ho fatto questa battuta durante qualche mio spettacolo. In fondo, se Riccardo Fogli non si fosse innamorato di lei, non avrebbe mai lasciato i Pooh e io non l'avrei mai sostituito. Le sono riconoscente».
E se i due non si fossero conosciuti che fine avrebbe fatto?
«Avrei fatto qualcosa con la musica. O nel cinema: la mia faccia piaceva a Luchino Visconti per Morte a Venezia. Me la sarei cavata».
Nella lista c'è anche la parola “Gratitudine”: a chi la deve maggiormente?
«Alla vita. Per questo ogni giorno mi alzo e mi faccio una bella risata».
Che vuol dire?
«Scendo dal letto e rido più che posso. Me lo ha insegnato Richard Romagnoli, un coach del benessere. Così la giornata comincia molto meglio. Certo, se qualcuno mi vedesse potrebbe prendermi per matto».
Mai come quando in motoscafo andò da una parte all'altra dell'Adriatico, da Jesolo a Rovigno: tutto vero?
«Certo. In due ore, a tutta velocità, più di trent’anni fa. I telefonini non esistevano. All'arrivo mi dissero davvero che ero un pazzo».
Cosa resterà dei Pooh?
«Credo che la nostra amicizia sia la cifra di riconoscibilità del nostro lavoro e durerà quanto la nostra musica, se non di più».
Nel 2026 festeggerete i 60 anni: come?
«Stiamo lavorando a un bel progetto. Partiremo nella primavera del 2026».
Andrete a Sanremo?
«Sì, come super ospiti. Non quest'anno, il prossimo. Ci siamo stati nel 2016 per i 50, faremo altrettanto per i 60. Anche allora c'era Carlo Conti. Tutto torna (ride, ndr)».