Santo Romano ucciso a San Sebastiano al Vesuvio, la fidanzata: ora voglio giustizia

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Lo portava scritto nel nome quel tratto di altruismo ed amore, lui che sapeva sorridere a tutti, dare una mano a chi si sentiva in difficoltà. Si chiamava Santo Romano, e giovedì sera aveva deciso di uscire con la fidanzata e gli amici per festeggiare l'onomastico. La comitiva si era data appuntamento a San Sebastiano al Vesuvio, che non è il Bronx, né una delle periferie metropolitane a rischio. Invece, all’improvviso, è arrivato quel colpo di pistola. 
 

La rabbia

Santo non c’è più, strappato per sempre - a soli 19 anni - ai sogni e alla vita. E già manca a chi lo ha conosciuto: sotto l’abitazione di via Gaspare Pucci, a Casoria, ci sono gli amici, i compagni della squadra di calcio dell’associazione sportiva “Micri”, in cui giocava titolare nel ruolo di portiere; ci sono i familiari e i residenti di questo piccolo rione defilato dal centro storico che confina con la linea ferroviaria dell’Alta Velocità. Piangono, si stringono, si abbracciano, qualcuno impreca e maledice “quel bastardo assassino” che ha premuto il grilletto. La rabbia è un sentimento palpabile e contagioso: «Stavolta devono buttare la chiave. Ma è vero che lo hanno preso?», domanda Salvatore riferendosi a chi ha ucciso il 19enne.  Dall’appartamentino al secondo piano della palazzina scendono due ragazze, si tengono abbracciate stringendo i fazzoletti nel pugno delle mani. Poca voglia di parlare, oggi.


Il dolore si sedimenta diventando rabbia. Più passa il tempo e più la mancanza di Santino si trasforma in una dolorosissima ferita aperta. È quella sulla pelle di mamma Mena, intorno alla quale i familiari hanno assicurato un cordone di riservatezza «perché oggi - dice un cugino - proprio non c’è niente da dire, e dovete lasciarci soli con il nostro dolore». Ma la disperazione di questa madre filtra forte e chiara dalle finestre aperte: il suo è come un lamento e al tempo stesso una sorta di nenia per il figlio che non c’è più. «Che ti hanno fatto, Santo mio? No, non è vero non è vero, non voglio crederci». Da quel riserbo ovattato imposto a tutti dai parenti di Mena si capta distintamente anche l’altra faccia del dolore, la rabbia, appunto. «La dovranno pagare! Chi ha fatto questo a Santo non deve uscire più di galera, buttate la chiave!».

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Le lacrime

Chi non si sottrae a mostrarsi in tutta la più drammatica sofferenza è Simona, la fidanzata del ragazzo ucciso. Parla stringendo ancora tra le braccia le scarpette da ginnastica che Santo indossava venerdì sera. «Vi dico io chi era Santo Romano - dice singhiozzando, abbracciata dal papà Carlo Capone - aveva 19 anni, era una persona d’oro, non immaginate nemmeno come sia cresciuto, il bene che ha fatto». Simona era presente alla tragedia dell’altra sera e ha visto morire il suo ragazzo. «Ho ancora brutti ricordi delle scene che ho vissuto. Sono scene che non si dimenticano. Santo si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato per difendere un amico. L’amico aveva calpestato la scarpa di chi poi ha sparato, fuggendo via per poi tornare». Poi lancia un appello: «Ai funerali, alle fiaccolate che si organizzeranno per ricordare il mio fidanzato dovremo portare avanti il suo ricordo ricordando chi era veramente. Mi appello a chiunque: venite in ricordo di Santo, che non deve essere dimenticato».

Santo ce l’aveva davvero scritto nel nome. Fino al giorno del suo martirio, atroce e inconcepibile. Dopo aver abbandonato gli studi si era rimesso sui libri seguendo puntualmente i corsi serali. Maturo e responsabile, aveva trovato anche un lavoro nel settore delle scommesse sportive per essere più indipendente e non pesare sull’economia domestica. E sì che anche mamma Mena di sacrifici ne aveva fatti per tirar su i due figli maschi (Santo aveva un fratello di due anni più grande), soprattutto dopo la separazione dal marito. «Era un ragazzo d’oro, e non è un modo di dire - aggiunge Carlo Capone, il padre di Simona - Credeva nei valori della famiglia e dell’amicizia. Quello che è successo ci dice che ormai bisogna cambiare atteggiamento con i minori che delinquono: servono pene certe e severe».

C’è un secondo terminale di dolore collettivo per la tragedia di San Sebastiano al Vesuvio: è il centro sportivo “Micri”, dove Santo era cresciuto calcisticamente. Ieri nella bella struttura di Pomigliano d’Arco si respirava aria pesante; ma nonostante il lutto per la morte del 19enne alcune partite di un torneo internazionale “juniores” si sono dovute disputare comunque. Eppure dietro le grida di gioia dei bimbi in campo tutti, qui, avevano gli occhi lucidi. «Che qualcuno fermi queste belve... Ciao Portierone. È come se fossimo stati catapultati in un incubo - scrivono su Facebook la società e tutti i compagni di squadra - Santo era un figlio per noi, un esempio per tutti». «Un esempio di vita e coraggio - aggiunge il presidente del team Michele Visone - Siamo ancora sotto choc, e nello spogliatoio c’è ancora la maglietta di Salvo appesa al gancio. In segno di lutto abbiamo sospeso tutte le gare. Santino lascia nella nostra famiglia un dolore e un vuoto incolmabile».

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