Il raid di Gerusalemme contro gli ayatollah ha riportato l'ordine in Medio Oriente
Dopo trentasei ore di riflessione, l’ayatollah Khamenei ha espresso un più che cauto commento sugli attacchi israeliani che nella notte su sabato scorso hanno colpito in Iran, senza che le difese potessero impedirlo, obiettivi militari e impianti di produzione di missili e loro componenti. Gli effetti dei blitz del “piccolo Satana”, ha detto il capo della teocrazia iraniana affidandosi al metodo La Palisse, “non dovrebbero essere sovrastimati né sottostimati”. Prudenti parole, ben diverse da quelle di un esponente estremista del regime che si era spinto a ridicolizzare gli israeliani parlando di “montagna che ha partorito un topolino”.
Khamenei ha anche evitato ogni riferimento a future controrappresaglie iraniane, lasciando a figure inferiori del regime di minacciare vendette in tempi imprecisati. La partita tra Teheran e Gerusalemme – che è poi quella vera in questo prolungato capitolo dell’eterno conflitto mediorientale che si svolge per precisa scelta degli iraniani sulla pelle dei palestinesi di Gaza e dei civili israeliani occasionalmente raggiungibili – rimane comunque aperta, e le sue prospettive incerte. Nel lungo termine, fintanto che il programma atomico dell’Iran rimane attivo, rimane sullo sfondo una resa dei conti decisiva e finale tra i due contendenti. Ma nel breve termine, interesse di Netanyahu (e di Khamenei) può anche essere quello di accontentarsi provvisoriamente di aver ristabilito la deterrenza, facendo capire ai falchi di Teheran che Israele può fare molto di più di ciò che ha fatto l’altra notte.
Dal punto di vista militare, Netanyahu dispone di capacità molto superiori a quelle dell’avversario, e può contare sul potente sostegno americano. In questa occasione si è limitato a colpire basi missilistiche, radar difensivi e siti produttivi di armamenti. Su pressione della Casa Bianca, ha evitato di toccare bersagli grossi come siti e infrastrutture dell’industria petrolifera (senza i quali l’economia iraniana verrebbe azzerata), obiettivi delicatissimi come i siti nucleari, e soprattutto non ha preso di mira esponenti del regime. Ma in una prossima tappa del confronto, potrebbe farlo.
Evidenziare la vulnerabilità del regime islamico sembra rimanere la priorità dell’azione israeliana. Il discorso del mese scorso in cui Netanyahu si è rivolto ai cittadini dell’Iran prospettando un cambio ai vertici politici del loro Paese e il ritorno di relazioni amichevoli con Israele (quali esistevano fino alla caduta dello Scià Reza Pahlevi nel 1979) è stato importantissimo e rivelatorio. Teoricamente Netanyahu avrà nuove occasioni in futuro per evidenziare quella vulnerabilità e tentare di favorire una rivolta interna. Molto, naturalmente, dipenderà dalle mosse di Khamenei (la cui cautela attuale parla chiaro), dal peso che potranno continuare ad avere i falchi del suo regime, ma, più ancora, da come voteranno gli elettori americani tra otto giorni.
Donald Trump alla Casa Bianca potrebbe incoraggiare Netanyahu a giocarsi carte pesanti e con un Iran rivoluzionato molte cose potrebbero cambiare, a cascata, anche in altri quadranti della “guerra mondiale a pezzi”.