L'editoriale del direttore Roberto Napoletano: senza l'Italia in Europa non si fa niente

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Il peso politico dell'Italia in Europa, e più specificamente della nostra premier Giorgia Meloni, è accresciuto visibilmente dalla nomina di Raffaele Fitto a una delle sei vicepresidenze esecutive della Commissione europea con deleghe tutte strategiche. Questo non è un commento politico, ma un dato di fatto, che misura la forza attuale del sistema Italia. È necessario rendersi conto che l'Europa è una confederazione di Stati e che questi stessi Stati, attraversati da crisi più o meno profonde, capiscono che se fanno fallire l'Europa ci restano sotto tutti. Se non si tiene in qualche modo l'insieme, non vai avanti. Rinunci in partenza a fare camminare l'Europa con le gambe sue e a farla diventare finalmente adulta.

Soprattutto se tutto ciò avviene in un quadro globale dove la guerra delle parole segnala un'escalation a dir poco inquietante che va oltre i terribili conflitti regionali in corso e interroga tutti sulla debolezza di Putin che può rappresentare il maggiore elemento di pericolosità.
In questo contesto di debolezza europea, anch'esso oggettivo, c'è un doppio riconoscimento all'Italia. Il primo riguarda direttamente la terza economia europea, che va meglio delle altre, e soprattutto esprime la migliore stabilità politica. Di questo, fuori dell'Italia, se ne sono accorti tutti, proprio tutti. Non c'è neppure bisogno di ripetere che la Germania è stabilmente in recessione e va verso nuove elezioni. Che la Francia fabbrica debito e ha un governo appiccicaticcio. Che la Spagna è spaccata politicamente, percorsa da sentimenti addirittura di guerra civile, oltre a non avere lo status per sostituire Francia e Germania nel ruolo di politica internazionale.

Ergo l'Italia, che è stabile politicamente e aumenta gli occupati, diventa ancora di più essenziale per qualsiasi soluzione si voglia immaginare. Da sola l'Italia non ce la può fare, ma senza l'Italia in Europa non si fa niente.

Questo vale per la politica internazionale come per la difesa comune che sono una priorità. Questo vale per tutte le misure da adottare se si vogliono affrontare, non a parole, le grandi emergenze globali: tecnologiche, industriali, demografiche, sanitarie e quelle legate alle immigrazioni.

Il secondo riconoscimento riguarda il valore in sé della vicepresidenza esecutiva di Fitto che è, a sua volta, frutto del pragmatismo della Meloni che ha bandito scelte di bandiera per candidare una persona competente e credibile. Una persona, soprattutto, che ha dimostrato sul campo, in Italia e in Europa, la capacità di decidere creando coesione in ambiti vitali delle politiche di sviluppo. Non è ancora chiaro, forse, a tutti, che non si tratta di una vicepresidenza di campanello, ma esecutiva e, cioè, espressione del governo ristretto della Commissione.

Bisogna ricordare che la sua vicepresidenza ha in via diretta la gestione dei 400 miliardi del fondo di coesione e, in condominio con Valdis Dombrovskis, quella della gestione del piano nazionale di ripresa e di resilienza (Pnrr) che per noi vale oltre 200 miliardi. Sempre alla stessa vicepresidenza fa capo il coordinamento dell'agricoltura che vale da sola atri 400 miliardi, dell'economia del mare, del trasporto e del turismo. Tutti settori strategici per lo sviluppo dell'economia europea e addirittura cruciali per lo sviluppo dell'economia italiana e, in particolare, per quella del suo Mezzogiorno.

Per intenderci, oltre due terzi del bilancio europeo dei fondi pluriennali della Commissione fanno capo a un vicepresidente espresso da un Paese Fondatore, l'Italia, che vede dunque riconosciuto al massimo livello il suo ruolo in Europa. Un vicepresidente che, come ministro per il Sud e gli affari europei dell'Italia, ha ricevuto la lode pubblica di primo della classe tra i soggetti attuatori nazionali del piano di Next Generation Eu che ha visto l'Europa fare debito comune dopo la pandemia e noi primi beneficiari.

Gestendo queste nuove pesanti deleghe nell'interesse dell'Europa, oltre che dell'Italia, come Fitto certamente farà, potrà produrre il risultato concreto di accrescere il peso dell'Italia in Europa. Perché dimostrerà che l'Italia è capace di esprimere e indirizzare una politica europea che aiuterà il Vecchio Continente a diventare nuovo e a competere con i giganti, americano e cinese, o, perlomeno, a non iniziare già sconfitti in partenza la competizione sulle sfide del futuro. È bene ricordarsi che i grandi cambiamenti europei, dai Fondatori De Gasperi, Adenauer, Schuman, tre uomini di confine, uno italiano, uno tedesco e uno francese, passando per Delors e Prodi, sono sempre stati determinati dalla realtà rivelatasi invalicabile degli Stati nazionali.

Le leadership illuminate di questi Stati nazionali ogni volta che si sono messi insieme hanno portato avanti l'Europa. Hanno prodotto cose, compiuto scelte che hanno determinato risultati. È stato così con la comunità europea del carbone e dell'acciaio e poi con il mercato comune, la circolazione regolata dei beni e dei capitali, l'allargamento ai Paesi dell'Est e altro ancora, magari attraverso processi irregolari ma sempre spinti da questa o quella leadership politica, da questo o quel capo di governo o di Stato. Abbiamo vissuto momenti di grande vitalità o di grande arretramento a seconda di chi fosse alla guida soprattutto dei tre Paesi Fondatori.

A maggior ragione oggi, in un mondo globalizzato e percorso da grandi guerre regionali che si allargano e si intrecciano pericolosamente tra di loro ogni giorno di più, non si può più vincere frazionati. Almeno su alcuni punti chiave si devono avere la forza politica e le capacità finanziarie e tecniche comuni per fare scelte coraggiose. Il realismo ci dice che solo gli Stati fondatori possono consentire all'Europa di diventare adulta camminando con le gambe proprie e liberandosi dai fardelli ideologici. Nella nuova frontiera della difesa e nella politica estera, come nelle politiche industriali e sociali e nella tecnologia. Ci sono una grande occasione per l'Italia, quasi un'opportunità storica, e uno spazio politico rilevante personale per Giorgia Meloni che ovviamente deve sapere spenderlo al meglio. Proprio come ha fatto con la scelta di Fitto e nella guida della politica economica ispirata a prudenza dei conti e alla chiusura dell'assistenzialismo premendo l'acceleratore sugli investimenti. Questa linea piace ai mercati e produce risultati in casa. Guai ad allontanarsi dal percorso intrapreso di riformismo pragmatico.
 

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