Giorgio Ventre, docente federiciano e direttore della Apple Developer Academy, in queste ore è all'Italian Academic Center di New York, sede statunitense dell'Università degli Studi di Napoli Federico II per celebrare gli 800 anni dell'ateneo.
Professor Ventre, mentre celebra le eccellenze federiciane a New York, arriva un riconoscimento importante dalla TechUK. Che effetto fa?
«Ci inorgoglisce, perché si tratta di un documento ufficiale che TechUK ha presentato al governo inglese come esempio per realizzare un sistema economico più forte, più dinamico, attraverso l'innovazione tecnologica. Per questa organizzazione, l'Apple Academy è un esempio di un'iniziativa di grande successo, soprattutto per lo sviluppo dei territori, proprio perché è a San Giovanni a Teduccio, un'area con similitudini con molte zone del Regno Unito dove un tempo c'erano molte fabbriche, oggi dismesse».
Qual è il punto di forza della Apple Academy che i britannici vorrebbero utilizzare?
«È un esempio eccellente di collaborazione tra privati, università e istituzioni. TechUK chiede al loro governo di farsi parte attiva, di incoraggiare queste iniziative, e citano noi come modello virtuoso da replicare».
Quindi è l'Academy a trasformare i territori?
«Ogni territorio ha delle specificità, e non puoi applicare la stessa ricetta ovunque. Ad esempio, nel centro storico di Napoli, puntare sull'alta tecnologia non ha senso come potrebbe averlo in periferia. Lì, invece, bisognerebbe valorizzare l'artigianato e la cultura locale. Quindi no, non è l'Apple Academy a cambiare i luoghi. Tutt'altra storia invece un campus, che è più di un luogo di studio: è un laboratorio di innovazione. Avere gli studenti che studiano, lavorano e creano imprese sul territorio è essenziale. Il modello del campus oggi non è più limitato all'insegnamento tradizionale, ma promuove un apprendimento partecipativo. Questo vuol dire che gli studenti non sono solo consumatori di conoscenza, ma diventano produttori di idee e competenze. A San Giovanni, Scampia e in altre aree di Napoli, un campus ben strutturato può rappresentare un vero motore di cambiamento. Ovviamente, è cruciale che questi spazi siano tecnologicamente avanzati e sufficientemente ampi per favorire l'interazione e la crescita professionale».
Quindi, anche in un contesto più centrale, pensa che si possa replicare questo modello?
«Certo. L'Albergo dei Poveri, per esempio, potrebbe diventare un campus straordinario. O anche all'ex Ospedale Militare. Questi sono luoghi con un potenziale enorme, che possono essere ripensati per ospitare nuove forme di apprendimento e innovazione. Non è solo una questione di infrastrutture, ma di creare ambienti dove le idee possono fiorire».
Riguardo il polo di San Giovanni, sono in arrivo nuove Academy?
«Stiamo lavorando su collaborazioni importanti nel campo dell'intelligenza artificiale, della cyber security e del quantum computing. Questi sono i temi su cui ci stiamo concentrando, e ci sono delle partnership che saranno ufficializzate a breve. L'obiettivo è sempre quello di posizionare Napoli come un hub per le tecnologie avanzate, con un impatto non solo locale, ma internazionale».
Parlando di internazionalizzazione, l'evento a New York coinvolge anche università e partner privati. Com'è stata l'accoglienza negli Stati Uniti?
«L'accoglienza è stata straordinaria. Abbiamo incontrato un forte interesse da parte delle università americane, che vedono nella Federico II un ecosistema incredibilmente ricco: 80mila studenti, 3.500 professori e 5mila dottorandi. Un valore aggiunto che pochi atenei possono vantare. E poi, il talento dei nostri studenti è riconosciuto ovunque. Le università americane sono in difficoltà nel trovare giovani brillanti, soprattutto per un modello basato su rette elevatissime. Questo crea una differenza fondamentale con il nostro sistema. Collaborare con loro può solo rafforzare entrambe le parti ma dobbiamo riportare i nostri ragazzi in Italia dopo esperienze all'estero».
In che modo?
«In Italia manca una politica per i giovani, un sistema che li sostenga nella ricerca di opportunità lavorative, di crescita e innovazione. Perdiamo tanti ragazzi promettenti perché non offriamo loro delle prospettive adeguate. È necessario cambiare rotta, creare un ambiente che li invogli a tornare e a investire nel nostro Paese».
Molti sono rimasti negli States.
«E sono professori e ricercatori che hanno raggiunto traguardi importanti in università come Yale, a Chicago, New York, Boston... È nostro compito mantenere questi legami e far crescere la comunità federiciana nel mondo. Questo è il futuro: unire le risorse e creare una rete che metta in contatto eccellenze italiane e internazionali».