Chiunque vinca Donald o Kamala ci dovremo convivere: il Vecchio e il Nuovo continente dovranno continuare a collaborare e a dialogare. Questo è quello che interessa all'Europa. Soprattutto quello che interessa è che il rapporto tra i due pilastri dell'Occidente si muovano insieme, mostrando di essere all'altezza della complessità delle sfide che il nuovo mondo pone. Ciò che conta è che l'Europa recuperi ruolo e azione. Si vorrebbe fossero altro che “tifoserie” quelle che si agitano, di qua e di là dell'Atlantico, nell'attesa dei risultati delle elezioni americane: Kamala Harris (“usato sicuro”) o Donald Trump (salto nel buio)? Dietro gli accesi accenti dei rispettivi tifosi, manca la percezione di quella che è la vera posta in gioco.
I mercati della politica sono pieni di pensose analisi volte a gettar luce sul cui prodest': per l'Italia, è meglio che vinca l'uno o l'altra? E per la Cina? E per l'Unione europea? E per la guerra in Ucraina? E per il sangue sparso a Gaza e nel Libano? E l'Iran? E Taiwan? I mercati della finanza si interrogano angosciati anche loro: lo yen tornerà a indebolirsicon Trump? Wall Street andrà a calare se vince Kamala? E il TBond? I Bund? I BTp? E il cambio euro/dollaro?
La posta in gioco
Queste (in)sane curiosità saranno presto soddisfatte, almeno per quanto riguarda le angosce dei mercati. Ma la posta in gioco va al di là dei risultati di elezioni locali (quali sono, in senso planetario, le elezioni Usa). Per capire la posta bisogna prima di tutto rendersi conto che, rispetto ad altre elezioni del passato locali e non-locali il mondo è cambiato. C'è una nuova “guerra fredda” fra Stati Uniti e Cina, c'è un nuovo assetto Nord-Sud (anche se non in senso strettamente geografico), c'è un'emergenza climatica sempre più evidente, ci sono sanguinosi focolai di guerra che minacciano di allargarsi, ci sono sviluppi tecnologici pregni di promesse e di rischi, e ed è questo che ci interessa c'è, attorno alla tavola del mondo, un “convitato di pietra”: l'Europa.
Di solito l'espressione “convitato di pietra” si riferisce a una presenza muta, solida e possente, di cui gli altri convitati non si rendono pienamente conto. Ma nel caso dell'Europa, no. È di pietra perché non si muove, non entra nei calcoli. Di fronte ad aree monolitiche che giocano sul campo del pianeta Usa e Cina l'Europa si presenta troppo frammentata. La geremiade non è nuova: decenni fa Kissinger disse, più o meno: chi devo chiamare se voglio parlare con l'Europa? E dodici anni fa, in un incontro a Varsavia, rincarò la dose: «L'Europa disse l'ex segretario di Stato Usa ha la capacità di diventare una superpotenza, ma non ha né l'organizzazione né l'idea di diventarlo. Questa è una sfida per il concetto di Europa».
Patriottismo e federalismo
Cosa c'entra tutto questo con le elezioni americane? C'entra, perché ci offre il destro per spostare il baricentro delle nostre attenzioni. Chiunque vinca Donald o Kamala è bene ripeterlo, ci dovremo convivere: il Vecchio e il Nuovo continente dovranno continuare a collaborare e a dialogare. Ma, in questo “paso doble”, chi guida e chi segue? È una domanda che riguarda le due grandi aree sulle due sponde dell'Atlantico, ma riguarda anche l'Italia nei confronti dell'Europa. Il grande ostacolo alla creazione degli Stati Uniti d'Europa o di un'Europa dei governi che faccia insieme quello che si deve fare insieme, sta in declinazioni ideologiche sempre più minoritarie dei cosiddetti patriottismi nazionali. Ma vi è veramente incompatibilità fra il patriottismo e l'Europa dei governi o il federalismo?
André Maurois, in «Ce que je crois», scrisse: «I patriottismi locali non nuociono al patriottismo nazionale. Al contrario. Il patriottismo nazionale è la somma dei patriottismi locali. La devozione a un governo planetario sarà la somma dei patriottismi e dei particolarismi nazionali, o non sarà». Parole che possiamo avvicinare alla famosa frase di Jean Monnet «L'Europa si farà nelle crisi, e sarà la somma delle soluzioni apportate a queste crisi» e alla caustica osservazione (nel 1974) dell'allora ministro tedesco delle Finanze Helmut Schmidt: «L'Europa vive di crisi».
Ed è appunto una crisi quella che si profila per l'Europa: le elezioni in America ci offrono il destro per riflettere su quello che vorremmo essere per confrontarci con il continente dirimpettaio. Non possiamo più contare sugli Stati Uniti d'America come garanti della nostra sicurezza. Ma per dotare l'Europa di una difesa comune, per incentivare gli investimenti nelle nuove tecnologie (il rapporto Draghi illustra la drammatica carenza delle spese in Europa per l'Intelligenza Artificiale), per accompagnare le transizioni ambientali e non solo (il filosofo americano Ralph Waldo Emerson disse: «Non è nelle sue mete ma nelle sue transizioni che l'uomo è grande»), per tutto questo ci vuole più “comunanza”, più condivisione di sovranità, più debito comune, più difesa comune.
Le opportunità
Forse non è questo il momento migliore per prospettare comunanze e condivisioni: due anni e mezzo di Covid, due anni e mezzo di invasione in Ucraina, più di un anno di guerre in Gaza, Israele, Libano, ci hanno forato le gomme dello spirito. Ma questa è un'osservazione a due lame: come si sa, in cinese la parola “crisi” (veiji) contiene i caratteri del pericolo (wei) così come dell'opportunità (ji). Insomma, è proprio nel momento del pericolo e delle crisi che si creano le opportunità. I lobi domestici e internazionali della nostra coscienza italiana ed europea incorniciano un periodo di scelte cruciali e difficili, che definiranno il posto dell'Europa nel mondo.
Ma cosa succederà se l'America diventa sempre più isolazionista e se in Europa continueranno a dominare gli egoismi nazionali? In quel caso, mala tempora currunt, e ci potremo solo consolare non è molto ma è meglio di niente con i versi di Eugenio Montale: «La storia non è poi / la devastante ruspa che si dice./ Lascia sottopassaggi, cripte, buche / e nascondigli. C'è chi sopravvive».