«Così furente non la vedevamo da anni». Dentro Fratelli d’Italia una Giorgia Meloni tanto irritata non se la ricordano, almeno da quando è approdata a palazzo Chigi. Un’amarezza - quella rivolta sia ai giudici del Tribunale di Roma che alla sinistra che ha invocato una procedura d’infrazione europea per l’Italia - talmente sul punto di tracimare che potrebbe spingerla a “sacrificare” la «madre di tutte le riforme», il premierato, in favore di un’accelerazione della separazione delle carriere all’interno della magistratura. Ovvero in favore della riforma più invisa alle toghe.
Una scelta su cui Meloni ragiona già da settimane anche per motivi squisitamente di calendario (la volontà è quella di evitare di ritrovarsi a fine legislatura con accoppiati due referendum complessi, per di più con pendente anche quello sull’autonomia differenziata chiesto dalle opposizioni) ma che ora appare molto più realistica. D’altro canto per lo sprint che pure Forza Italia chiede a gran voce nel nome di Silvio Berlusconi, bisogna aspettare almeno la fine dell’anno. La prossima settimana infatti prenderà il via la sessione di bilancio e con essa la consueta restrizione per i provvedimenti che comportano una spesa. Il rilancio della separazione delle carriere verosimilmente arriverà quindi non prima di dicembre. Quando cioè la pressione dello scontro tra palazzo Chigi e la porzione più politicizzata della magistratura potrebbe essere andato oltre il livello di guardia.
IL CALENDARIO
Come ben dimostrano le parole di Giovanbattista Fazzolari o di Giovanni Donzelli, da qui in avanti la strada affinché il prossimo inverno diventi particolarmente caldo per il governo sul fronte della giustizia pare abbastanza in discesa. Non tanto per le vicende che coinvolgono la ministra Daniela Santanché (che potrebbero slittare ulteriormente dopo la richiesta di spostare il processo a Roma avanzata dall’esponente di FdI) quanto per una serie di appuntamenti scivolosissimi.
In primis l’attesa indicazione di un nuovo componente della Consulta, per cui la Camera dei deputati è stata riconvocata per il 29 ottobre dopo il blitz fallito poco più di una settimana fa e in attesa che a dicembre scadano i mandati di altri tre membri della Corte Costituzionale tra quelli eletti dal Parlamento.
In secondo luogo per l’udienza del 12 novembre fissata dalla Consulta per discutere delle questioni di legittimità sollevate dalla Regioni rispetto all’autonomia differenziata. In ultima istanza - al netto dello spettro del danno erariale e di un intervento della Corte dei Conti sui centri costruiti in Albania ventilata pure dalle opposizioni - perché il 20 dicembre prossimo è attesa la sentenza del caso OpenArms per il vicepremier Matteo Salvini. Una potenziale via crucis per l’esecutivo, che rischia di avvalorare uno scontro su cui il Quirinale tiene alta la guardia.
IL PROVVEDIMENTO
Intanto resta da capire quale sarà concretamente la risposta immediata dell’esecutivo. Il provvedimento annunciato da Meloni stessa per aggirare «l’ostacolo» posto dai giudici della sezione immigrazione nei giorni scorsi, è infatti ancora da chiudere.
Se l’inserimento della lista dei Paesi sicuri all’interno di un decreto legge al fine di evitarne la disapplicazione come avvenuto pochi giorni fa non pare essere in discussione, ci sono dei dubbi sulla “tenuta” della seconda gamba del provvedimento. Vale a dire la possibilità di un ricorso rapido da parte delle Procure nei confronti di decisioni simili a quelle prese dalle toghe per i migranti trasportati in Albania (ma anche per alcuni a Pozzallo e Porto Empedocle). In particolare non sarebbero ancora stati individuati né i protagonisti (ad esempio a quale tribunale bisognerebbe rivolgersi) né delle procedure che possano evitare ulteriori impugnazioni. Non a caso, fonti di rilievo tra coloro che stanno lavorando al testo, non escludono che il Consiglio dei ministri possa infine essere solo interlocutorio sul punto. Con il rischio che l’incancrenirsi dello scontro porti a decisioni ancora più nette.
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