La vera visione ideologica della violenza di genere è quella del ministro Valditara

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Circa dieci giorni dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin, il ministro dell’Istruzione Valditara annunciò un progetto di educazione affettiva nelle scuole intitolato “Educare alle relazioni”. La risposta del ministro arrivò tardiva dopo numerose sollecitazioni da parte dell’opinione pubblica, che di fronte all’enormità del caso giudicò troppo timide le reazioni della politica, considerando anche che diversi suoi esponenti avevano attaccato la famiglia Cecchettin, e in particolare Elena che aveva nominato il patriarcato come responsabile dell’omicidio della sorella. L’Italia è infatti uno dei pochi Paesi in Europa dove, nonostante i tassi di violenza contro le donne siano piuttosto alti, non si fa né educazione sessuale né educazione di genere. Il piano di Valditara però, oltre a essere facoltativo, non poneva minimamente l’accento su quello che in teoria anche il nostro Paese, avendo ratificato la Convenzione di Istanbul, riconosce come causa della violenza di genere: la disparità di potere fra uomini e donne o, in altre parole, il patriarcato.

A un anno di distanza dal proclama, il progetto non è mai stato avviato, e la visione del mondo di Valditara è rimasta lì. Anzi, è peggiorata. Oggi, alla presentazione della Fondazione Giulia Cecchettin, il ministro ha detto davanti al padre Gino che la colpa della violenza di genere è nell’immigrazione clandestina e che risolvere la “questione femminile” con il patriarcato è una “visione ideologica”. Il patriarcato, assicura Valditara, è finito con la riforma del diritto di famiglia del 1975 e il femminicidio non è frutto di una visione proprietaria della donna – decaduta per legge a quanto pare – ma dal narcisismo del maschio che non sa affrontare i no. Già il fatto che il ministro pensi che quella della violenza sia una questione femminile e non maschile la dice lunga, a maggior ragione visto che il femminicidio per lui sarebbe causato da un problema caratteriale individuale.

E infatti il discorso si allontana subito dalla questione di genere e diventa un appello a chi “arriva” nel nostro Paese e che deve imparare che qui si rigetta la violenza “contro chiunque”. Peccato che Valditara abbia accettato di parlare all’inaugurazione di una fondazione di una donna uccisa da un uomo e che qui non si stia parlando genericamente di “deboli da proteggere contro i prepotenti”, come dice il ministro, ma di violenza contro le donne commessa dagli uomini. Uomini che in gran parte non sono immigrati clandestini, ma italiani: secondo l’Istat tra il 2010 e il 2018, gli italiani erano il 60% degli imputati per violenza sessuale, l’86% per stalking e il 75% per maltrattamenti in famiglia. Il discorso non regge nemmeno se si parla dei “giovani”. Nell’ultima relazione del Servizio analisi criminale della Direzione centrale della Polizia criminale, risultava che il 73% delle violenze sessuali commesse da uomini con meno di 34 anni nel 2023 sia stato commesso da persone di nazionalità italiana.

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L’aumento della violenza di genere, sia per quanto riguarda i femminicidi che per quanto riguarda gli stupri, non ha nulla a che vedere con le migrazioni e ci vuole un bel coraggio ad affermare il contrario davanti a un padre che ha perso la propria figlia per mano di un uomo italiano, e che da un anno si impegna affinché siano proprio gli uomini, per primi, a prendere coscienza del loro ruolo per contrastare questo fenomeno. Ma per Valditara tutto questo impegno è inutile, visto che la violenza la commettono soltanto narcisisti e immigrati. E dicendolo rivela quello che era chiaro sin dal primo giorno rispetto al suo piano sull’Educazione alle relazioni: che è inutile, non perché è pensato effettivamente male, ma perché lo stesso ministro che lo promuove dice di voler partire dalla scuola senza pensare che la scuola possa fare la differenza. Almeno che una parte ancora ignota del piano non preveda la bocciatura per gli studenti narcisisti, o che gli insegnanti si mettano a bloccare i porti e accompagnare migranti irregolari in Albania.

Ma questo non lo possiamo sapere, come non possiamo sapere nulla di questo progetto, se non che giace da un anno in un cassetto. Nemmeno l’identità del coordinatore: prima una task force di tre donne (tra cui una suora); poi un professionista che sostiene che c’è corso una “guerra tra i sessi” e che le donne sono cattive più degli uomini; poi Paolo Crepet che però dice di non saperne niente. Solo una cosa è chiara: il ministro vuole insegnare a scuola a combattere la violenza contro le donne senza combatterla, senza nominarla, senza analizzarla come fenomeno sociale ma solo come problema di devianza individuale. Perché il patriarcato è finito nel 1975, poi sono arrivati gli immigrati.

E a questo punto forse è meglio che nel cassetto quel progetto ci rimanga.

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Jennifer Guerra è nata nel 1995 in provincia di Brescia e oggi vive in provincia di Treviso. Giornalista professionista, i suoi scritti sono apparsi su L’Espresso, Sette, La Stampa e The Vision, dove ha lavorato come redattrice. Per questa testata ha curato anche il podcast a tema femminista AntiCorpi. Si interessa di tematiche di genere, femminismi e diritti LGBTQ+. Per Edizioni Tlon ha scritto Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà (2020) e per Bompiani Il capitale amoroso. Manifesto per un Eros politico e rivoluzionario (2021). È una grande appassionata di Ernest Hemingway.

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