Conservatori di tutto il mondo unitevi. O, insomma, quanto meno lo facciano quelli delle due sponde dell’Atlantico. A Giorgia Meloni la vittoria di Donald Trump e il riallineamento politico tra Palazzo Chigi e la Casa Bianca devono essere suonati quasi come una carica. Nel day after dell’onda rossa repubblicana, nei pensieri di una Meloni costretta a casa dall’influenza c’è infatti di più dell’istituzionalissima nota affidata alle agenzie per non urtare le sensibilità uscenti o, pure, del «legame strategico», delle «nazioni sorelle» e «dell’alleanza incrollabile» con cui ha condito le congratulazioni al Tycoon. Nelle analisi condivise dalla presidente del Consiglio con la prima linea dei suoi collaboratori il gran ritorno trumpiano è per l’Italia «un’occasione» perché consente di puntare «ad una centralità completamente nuova». In uno scenario che per qualcuno a palazzo Chigi vedrebbe Olaf Scholz (ieri alle prese con una crisi di governo che potrebbe portare alle elezioni a inizio 2025) ed Emmanuel Macron «terrorizzati» dagli effetti della vittoria trumpiana, Meloni mira cioè a farsi interlocutrice privilegiata di The Donald. Anche «a garanzia dell’Europa» ovviamente, che necessita di non cadere nella trappola di una incomunicabilità che non può convenire a nessuno.
A certificarlo, d’altro canto, pare essere pure Sergio Mattarella. Non tanto per le parole sugli «inscindibili vincoli di amicizia» messe nero su bianco mentre si trova curiosamente a Pechino («Le porgo cordiali auguri di successo nel suo nuovo mandato alla presidenza degli Stati Uniti d'America» l’incipit del messaggio), quanto per il fatto stesso che queste parole ci siano effettivamente state. Il clima era diverso, certo. E pure Trump lo era. Ma nel 2016 - come testimonia l’archivio delle comunicazioni ufficiali del primo mandato mattarelliano - le congratulazioni al Tycoon non furono mai formalizzate dal Quirinale.
IL RAPPORTO
Al netto di un rapporto personale consolidato che spingerà la premier con ogni probabilità a sentire privatamente Trump nelle prossime ore, il muro contro muro più che non essere un’opzione, oggi non è nelle corde italiane. Lo schema è grosso modo quello già esibito con quel Viktor Orbàn che oggi sarà gran visìr della comunità politica europea riunita a Budapest. Con le ovvie differenze dovute tanto da standing e rapporti di forza di chi siede dall’altro lato del tavolo quanto per affinità più marcate di quelle magiare. Quali? La gestione del dossier immigrazione su tutte. Ma anche quell’identità nazionale che rischia di essere a doppio taglio se perorata a colpi di dazi indiscriminati. E poco importa, per ora, se il sostegno incrollabile all’Ucraina scandito a più riprese rischia di vacillare. O se, c’è da giurarci, l’obiettivo del 2% del Pil per le spese militari della Nato dovrà adesso avvicinarsi rapidamente.
LA RICETTA
D’altro canto, al di là del fil rouge che la lega ad Elon Musk, era il 2020 quando Meloni parlava di «portare la ricetta Trump in Italia». Che la premier lo stia facendo o meno è complicato da dire, che altri nel centrodestra “cucinino” con lo stesso obiettivo è però evidente. Alle uscite più guardinghe di Forza Italia, con il leader e ministro degli Esteri Antonio Tajani a dettare la linea della continuità («Con Trump presidente non cambia assolutamente nulla, noi siamo amici degli Stati Uniti») e all’assonanza dipinta in una nota dal sottosegretario di palazzo Chigi e colonnello di FdI Giovanbattista Fazzolari («Negli Stati Uniti, come in Italia due anni fa, ha vinto il Paese reale», i cittadini «sono stanchi delle battaglie ideologiche della sinistra») fa da contraltare l’entusiasmo leghista.
A Montecitorio Matteo Salvini, in attesa di riuscire a mettere il cappello sulla vittoria con «un viaggio negli Stati Uniti a cui stiamo lavorando», si presenta per il question time copiando giacca, camicia e cravatta al Tycoon. Il vicepremier “si specchia” nella zazzera bionda del presidente-bis americano e invoca la sua patente di trumpiano della prima ora: «Sono contento di non aver mai nascosto le mie simpatie». «Chissà cosa ne pensa Trump» malignano però a via della Scrofa sottintendendo che l’americano preferirà chi muove le file a palazzo Chigi e riaprendo l’album dei ricordi sul 2016, quando l’allora candidato repubblicano negò di conoscere un già entusiasta Salvini.
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