Hawaii terra promessa di uno sport di cui molti hanno sentito parlare anche se non sanno esattamente cosa sia. Protagonisti: dal campione in carica, il francese Sam Laidlow, i norvegesi Kristian Blummenfelt e Gustav Iden, il tedesco Patrick Lange. Tra gli azzurri occhi puntati su Gregory Barnaby
Il mondiale di triathlon a Kona va oltre l’ironman. È qualcosa in più di un evento sportivo, capace di catturare la fantasia, di entrare nell’immaginario collettivo di altri mondi spesso lontanissimi ma che una volta l’anno si sintonizzano. E le Hawaii sono diventate la terra promessa di uno sport di cui molti hanno sentito parlare anche se non sanno esattamente cosa sia. Ma cos'è esattamente la finale del mondiale Ironman che domattina a Kona vedrà al via qualche migliaio di atleti ma soprattutto una cinquantina di professionisti che nuoteranno, pedaleranno e correranno fino a sfinirsi? Non è una gara estrema ma è sicuramente una gara dura, durissima perchè nuotare in Oceano per 3 chilometri e 900 metri, pedalare per 180 che, per chi non è del mestiere è un po' come andare da Milano a Bologna, e alla fine correre una maratona che sono 42 chilometri, non è proprio da tutti. Quindi una gara per pochi, per "matti", dice qualcuno. E in effetti basta ricordare come tutto cominciò per capire che tanto "sani" per provarci non bisogna essere...
La prima volta fu su una spiaggia delle Hawaii una cinquantina di anni fa. Cominciò tutto per caso perchè, quasi sempre, tutte le grandi sfide nascono per caso. C’è sempre una scintilla, un lampo che trasforma la sensazione in un sogno. Vale per le grandi imprese, le grandi scalate, per le più ardite traversate in mare. Come succedeva agli eroi dell’antica Grecia tutti da qualche parte possono trovare coraggio di guardare gli Dei negli occhi anche per una sola volta. Il mito si alimenta così, non c’è un preavviso. L’Ironman delle Hawai nasce 46 anni fa durante la premiazione di una gara su una spiaggia della Big Island. Per caso, ovviamente. Quattro marines ubriachi fanno notte impilando lattine di birra sulla spiaggia e discutono di quale sia lo sport più duro in assoluto. Chiacchiere. Uno dei tre, John Collins ha un’idea. Quella giusta. Una nuova sfida che sia il risultato di 3 gare dove già bisogna buttare il cuore oltre l’ostacolo: la Waikiki Roughwater, 2,4 miglia di nuoto più la Around Oahu Bike Race con 112 miglia in bici e la Honololu marathon con 26,6 miglia di corsa. Tutte di seguito, senza mai fermarsi: vince chi arriva alla fine in meno di 17 ore. Sarà il primo Ironman della storia. Il 18 febbraio del 1978 la sfida parte all’alba, mezzora prima che sorga il sole, quando mare e cielo si confondo sulla linea dell’orizzonte. Nelle acque della marina di Kona si tuffano in 15. Pochi, pochissimi, quelli più audaci o più incoscienti che trovano il coraggio di affrontare una sfida che non sembra possibile, che pare un peccato di presunzione figlio di quella “ubris” che tanto fa arrabbiare gli Dei. E qui invece gli Dei bisogna averli dalla propria parte fino all’ultimo metro di strada, fin sul traguardo. Solo dodici arrivano in fondo. Una dozzina di uomini che per tutti diventano d’acciaio e scrivono un pezzetto di storia di questo sport. Non finisce lì. Anzi, lì’ comincia. Di anno in anno ad alimentare un mito che ha visto protagonisti atleti con storie diverse, con obbiettivi differenti perchè, qualsiasi il risultato finale, arrivare a correre a Kona è la coronazione di un sogno, è la sfida di una vita sportiva per chi fa triathlon.
Certo ora è business, all’ennesima potenza. Un grande evento che muove milioni di dollari, giornali, tv, che monopolizza un bel pezzo di Web, che diventa cassa di risonanza per chi vuole far conoscere qualcosa, non solo l'impresa sportiva, dove uomini, eroi, e divinità poco c’entrano perchè a dettare le regole non sono gli Dei dell’Olimpo ma i manager delle grandi aziende. C’era una volta lo splendore divino di Achille, c’è oggi il prestigio di un marchio e degli sponsor. Il mito che viene sapientemente alimentato da pianificate strategie di marketing. L’ironman di Kona è business all’ennesima potenza anche se per chi ci va e per chi gareggia poco importa perchè resta la sfida delle sfide, fatica ed emozioni comprese. A testimoniarlo sono le immagini delle Hawaii che una volta l'anno diventa l'ombelico del triathlon, dove ogni anno si ripete il rito. Sono le panoramiche regalate dal volo dei droni che raccontano di un mare azzurro e di una terra che, laddove si corre e si pedala, diventa scura, bruciata dal calore di un vulcano che sta nel mezzo e, a chi deve gareggiare, spesso cambia le carte in tavola. Sono sirene, spari, file indiane di campioni in mare che si allungano facendo rotta sulle boe e poi diventano la tonnara di un popolo che qui fa la gara della vita. Sono i tifosi, i parenti, gli amici rassegnati ad un pomeriggio di attese, di ansie e speranze. Sono bici del futuro (spesso brutte), i caschi del futuro (spesso belli), sono scarpe, body, mozzi, pedivelle e corone “deformi” capaci di tradurre ogni movimento in una somma di watt. Sono gel, borracce, barrette, sali tutto ciò che serve a sostenere una fatica infinita, ad ingannare il caldo, il piccolo “inferno” dell’Energy lab, l’umidità che moltiplica i chilometri della maratona.
Ma il fascino sportivo è grande e anche questa è una storia è da raccontare. Una sfida tosta, per molti assurda e incomprensibile, che qui ha visto vincere campioni assoluti da Gordon Haller, il primo, a Dave Scott a Mark Allen tutti statunitensi e dominatori tra gli Anni ’80 e ’90. Negli anni a seguire dal belga Luc van Lierde all’australiano Chris Mc Cormack, “Macca” per gli appassionati, che insieme con il connazionale Craig Alexander dettarono legge tra il 2007 e il 2011. Quindi i tedeschi. Sebabastian Kienle, Patrick Lange e Jan Frodeno che dal 2015 per più di un lustro non lasciarono spazio a nessun avversario. Ora “comandano” i norvegesi. Nel 2021 ad imporsi fu Kristian Blummenfelt, e nel 2022 Gustav Iden, scalzati lo scorso anno dal francese Sam Laidlow, primo francese ad imporsi nella storia. Tra le donne la più vincente alle Hawaii è senza dubbio con i suoi otto titoli, la fenomenale Paula Newby-Fraser, soprannominata la Regina di Kona, seguita dalle triatlete svizzere Natascha Badmann e Daniela Ryf rispettivamente con sei e cinque vittorie e dalla britannica Chrissie Wellington che vanta quattro titoli.
Tra pochi giorni il sipario si rialza. Kona torna ad essere l’ombelico del triathlon di lunga distanza, la terra promessa per molti appassionati e per chi è riuscito a qualificarsi per una finale che è molto di più di una finale, quasi sempre il sogno di una vita sportiva. Se la giocheranno tutti e vinceranno tutti. Poi ovviamente ci sarà chi vincerà davvero e allora bisognerà tener d’occhio i soliti noti.
Dal campione in carica, il francese Sam Laidlow, a chi da queste parti ha già trionfato e ci riproverà: i norvegesi Kristian Blummenfelt e Gustav Iden e il tedesco Patrick Lange. Tra gli azzurri occhi puntati su Gregory Barnaby il 33enne triatleta veronese di Sant’Ambrogio di Valpolicella che pochi mesi fa, a Francoforte, ha conquistato il bronzo nel campionato europeo.