Dalla Dc a Forza Italia fino alla Meloni. Nel saggio di Bocchino, il dna di un popolo liberale e moderato
Avevo letto, il 10 ottobre, questa notizia sul Corriere della Sera: «Galleria nazionale d'arte moderna (Gnam), si dimettono 3 componenti del Comitato scientifico su 4: Usato uno spazio pubblico per presentare il libro di Italo Bocchino». Ero sempre stato convinto che gli spazi pubblici servissero a confronti pubblici, e quelli privati a discutere dei fatti propri. E non c'è nulla di più aperto alle libere discussioni dell'incontro su un libro. Poi ho capito. Non era questione di spazi pubblici, ma di anatemi razzisti da scagliare contro chi non è della etnia dei compagnucci. Lo scandalo insomma era stato sollevato ad personam, colpa dell'autore, indicato a dito nelle ultime due parole del comunicato: Italo Bocchino. Bocchino? Basta la parola. Che cosa ha di così indecente Bocchino da indurre addirittura alle dimissioni azzimati professori d'arte per l'orrore di essere accostati a tale personaggio? Secondo loro, a un certo punto della sua vita, si era dipinto di rosso, ma era finzione, la tintura cremisi alla prima pioggia si è dissolta, Italo è nero. Un nero dolce, capace di aprirsi ai grigi e agli azzurrini, secondo la predicazione del suo compianto maestro Pinuccio Tatarella. Fatto sta che è finito in una lista di proscrizione dei comunisti, ciò che per me equivale a una medaglia al valore.
Così mi sono procurato il volume Perché l'Italia è di destra. Contro le bugie della sinistra (Solferino, pagine 254, 18). Me lo sono letto. Direi bevuto. Perché, pur essendo un saggio di politologia rinuncia al politichese, si lascia gustare per la facilità della scrittura e la sensatezza onesta delle tesi. Di cui la principale e inossidabile è questa: il popolo italiano nei momenti decisivi della sua storia, se messo in condizione di votare, sceglie la destra contro la sinistra. Per destra l'autore, si badi, non intende l'Msi o a seguire An e FdI. Ma semplicemente lo schieramento alternativo a comunisti e affini. Tre sono i tornanti epocali da lui individuati come prova. Nel 1948 (prima Repubblica), a essere privilegiata fu la Democrazia Cristiana che occupò la maggioranza assoluta dei seggi; nel 1994 (seconda Repubblica) a essere vincente, contro ogni pronostico di chi non conosceva l'odore del popolo, fu il rassemblement voluto da Berlusconi, con Forza Italia, Alleanza Nazionale e Lega (alla cui formazione prima o poi qualcuno dovrà riconoscere il contributo dato dal sottoscritto con L'Indipendente). Nel 2022 (e siamo alla terza Repubblica, sia pure in fieri) gli italiani decretano un trionfo alla destra-centro nel segno di Giorgia Meloni.
La ragione di questa ciclicità «con scappellamento a destra» (copyright Mario Monicelli)? Semplice: il popolo italiano è naturalmente di destra. Dove destra non ha nulla a che fare con manganello e dittatura, ma riguarda una condivisione di valori tradizionali quali famiglia, principio di autorità, lavoro, una giustizia sociale che non sia ugualitarismo, sicurezza, atlantismo. Insomma, una destra repubblicana e democratica, con una diversità antropologica rispetto alle altre destre europee liberali, ed è il connotato di non essere elitaria ma di popolo. E Meloni è «di popolo», come disse un netturbino romano ad Aldo Cazzulo per spiegare il suo voto proletario alla destra: «è una di noi», per storia, patimenti vissuti con coraggio, tigna per emergere: ha una forza d'animo, che è un dono rarissimo e lo incanta. Bocchino prevede possa governare per un ventennio, questa volta da intendersi come sano percorso di democrazia, e felicità degli italiani. Giorgia deve però sistemare una questione essenziale per dare stabilità ai governi: vincere il referendum sul premierato, per trionfare nel quale è necessario sia depoliticizzato trovando anche alleanze a sinistra-centro. In fondo anche la sinistra ha gradito l'elezione diretta di sindaco e presidente di Regione (grazie al Tatarellum) che ha dato alle figure istituzionali autorevolezza e durata, sottraendo queste cariche al disdoro delle menate partitiche.
Torno alla figura di Bocchino. Lo faccio perché il suo nome evoca salti della quaglia antipatici, con cui è necessario fare i conti. Lui li ha fatti questi conti, pagandone il prezzo.
Un balzo indietro. Era il tempo in cui Italo Bocchino aveva partecipato da luogotenente alla sollevazione di Gianfranco Fini contro Berlusconi. Il giovanotto di Aversa (Caserta), fu innalzato a eroe dei progressisti e portato in sedia gestatoria, con la corona di lauro in testa, nei talk-show. In tanti dei suoi ex camerati rimasero scioccati. Fin da piccino militante del Fronte della gioventù, deputato a 28 anni nel 1996 con Alleanza nazionale, allievo prediletto del già citato Tatarella - leader di una destra senza camicia nera, afascista e aliena da slogan mistici sull'onore -, aveva cambiato fronte. In quei mesi rappresentò con Fini il volto del fedifrago, mescolato ai nemici conclamati Napolitano, Sarkozy, Hillary Clinton (2011).
Italo cadde subito da cavallo. Sic transit gloria mundi. Candidatosi con Monti nel 2013, come Fini e tutto il manipolo di Futuro e libertà, risultò trombato. Non ha cercato di riciclarsi a sinistra, o cercato la giravolta al centro. Si è esiliato dalla politica per un decennio, infine è rientrato per attrazione fatale nel suo luogo nativo: la destra. Lo fa come giornalista, da direttore editoriale del Secolo d'Italia, che lui concepisce come organo d'informazione non solo di Fratelli d'Italia ma dell'intero centrodestra, ed - extra moenia si esibisce da opinionista su La7, dove regge la parte del meloniano in partibus infedelium (da Lilli Gruber e Giovanni Floris). Il ripensamento e il rientro nei ranghi è chiaro e dichiarato, però non ha spazzato via la caligine di diffidenza da parte degli antichi camerati oggi al governo. E dire che altri - è lui a farlo notare - senza passare da riti purificatori umilianti, pur avendo vestito la sua stessa divisa in quel 2011 e poi nel 2013, sono oggi ministri, come Adolfo Urso a Giuseppe Valditara. Per lui invece non è scattato l'abbraccio al figliol prodigo. Non che gli abbiano rifilato un calcio nel sedere, ma che se ne stia in perenne bagnomaria, alla periferia del partito. Chi l'ha sdoganato affettuosamente è stato Ignazio La Russa, il quale ha addirittura proposto di inserire il libro bocchiniano nei programmi delle scuole superiori come quelli bocconiani nei corsi di laurea.
Due sono state le ragioni che hanno indotto Italo a riaffacciarsi sull'uscio di casa chiedendo permesso. La prima è pragmatica. La scelta di Futuro e libertà, e poi con Monti è stata una bischerata. Se la gente te la boccia nelle urne, vuol dire che fa schifo. Usa parole irridenti per quella sua avventura. Scrive nel libro a pag. 99: «La stramba e fallimentare esperienza di Futuro e libertà». La seconda ragione del desiderato ritorno nella culla materna è qualcosa insieme di ideologico e affettivo. Italo vede nella figura e nelle idee di Giorgia Meloni, proprio nel suo modo di essere, nello stile di vita, nel carattere, una nuova alba, un barbaglio di luce primaverile: per l'Italia, e perciò per la Destra, perché essa coincide con il sentimento della vita maggioritario tra i connazionali. Ci sono altre tesi interessanti nel libro.
Quella di mettere nel cassetto i volumi di fantasy di J.R.R. Tolkien (1892-1972), per puntare a imparare il moderno conservatorismo dal filosofo inglese Roger Scruton (1944-2020), citato di recente da Meloni in America, quando il libro di Bocchino era già in stampa.