Sal Da Vinci: «Ho scoperto il mondo degli adulti troppo presto. L'adolescenza è stata molto complicata»

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Visto da vicino il cantante napoletano Sal Da Vinci sembra un ragazzino, nonostante abbia 55 anni suonati e sia già nonno di tre bambini. Così quando due giorni fa è venuto al Messaggero, ha subito messo le mani avanti: «Tutto naturale, per carità. Anche mia madre ha pochissime rughe. E comunque prima di venire sono stato a registrare un programma della Rai e mi hanno truccato un po'». Nato a New York, dove il padre Mario era in tournèe - scomparso nel 2015, è stato uno dei grandi interpreti della sceneggiata napoletana - il suo vero nome è Salvatore Michael Sorrentino, Da Vinci l'ha preso in prestito direttamente dal genitore («Fu il suo impresario a suggerirgli di usare un cognome celebre per essere più riconoscibile»). In teatro dall'età di sette anni, fra alti e bassi Sal ha fatto di tutto: sceneggiate, musical, musicarelli, tv e tanti dischi. Ha lavorato con il padre, ovviamente, con Carlo Verdone (in Troppo forte era Capua), Roberto De Simone, Claudio Mattone, Enrico Vaime, Gigi D'Alessio e tanti altri fuoriclasse, ha vinto il Festival Italiano di Canale 5 nel 1994 con Vera, è arrivato terzo a Sanremo nel 2009 con Non riesco a farti innamorare e con Rossetto e caffè da giugno a oggi ha realizzato una hit da quasi 28 milioni di ascolti su Spotify. 

Se la sta passando bene, giusto?
«È un bel momento, quasi miracoloso per uno che si aspetta poco dalla vita, o meglio dalle persone». 

Addirittura? Che cosa è successo?
«Sono un cantante melodico e la melodia in questi anni è stata maltrattata e messa da parte». 

Per questo in più occasioni si è lamentato? Si è sentito snobbato?
«Non sono uno che si lamenta, forse lo facevo da giovane quando ero più impulsivo. Dico quello che penso, questo sì. E oggi il telefonino e le piattaforme hanno cambiato tutto. C'è accesso a qualsiasi cosa, ma c'è poca passione e attenzione». 

Dopo il terzo posto del 2009 a Sanremo si aspettava di più?
«Forse, ma per fortuna ho il mio pubblico, che mi segue sempre».

È vero che nel 1999 non voleva lavorare con il grande compositore Roberto De Simone?
«Quando mi chiamò per la sua Opera buffa del Giovedì Santo, un lavoro che mi cambiò la vita - dopo fece anche il fortunato C'era una volta...Scugnizzi, ndr - non volevo accettare perché il teatro mi aveva segnato».

Che intende dire?
«Cominciai in teatro a sette anni e lì dentro ho visto cose che un bambino non doveva vedere. Ho scoperto il mondo degli adulti troppo presto: guitti, cattiverie gratuite e colpi bassi. A quell’età si cresce con un'ottica troppo diversa da quella dei coetanei. Così, pur avendo un padre protettivo, non ho vissuto la mia infanzia e sono finito direttamente in un'adolescenza complicata».

Perché?
«A tredici anni si spensero i riflettori e tutto per me diventò complicato. Le persone che mi giravano intorno sparirono. Mi abbandonarono tutti. Fu durissima, e lo stesso capitò a mio padre. Solo che lui doveva portare avanti una famiglia di sei figli. Lavorava pochissimo e pur di sopravvivere, si inventò di tutto. Ce la fece sempre e come famiglia riuscimmo a rimanere molto uniti». 

Iniziare a lavorare a sette anni non è una mezza follia? 
«All'epoca c'era un'altra sensibilità. Io frequentavo una scuola privata, mio padre mi veniva a prendere a scuola alle 13.30, mangiavo un panino in macchina, andavo in teatro e facevo tre spettacoli al giorno».

Una fatica incredibile. 
«Sì, ma anche una palestra straordinaria: ho avuto la possibilità di stare vicino ai grandi attori del teatro napoletano. Ho respirato aria buona e meno buona. Ho mandato giù bottiglie di veleno e bottiglie di latte».

Come si è regolato con suo figlio Francesco, anche lui cantante?
«L'ho sostenuto come mio padre ha fatto con me, però facendogli fare solo quello che gli piaceva».

È vero che per Sanremo ha presentato a Carlo Conti una canzone per Sanremo?
«Sì. Affronta il tema del rapporto padre-figlio e con me c'è proprio il mio Francesco. Non ho parlato con Conti, ma sono tranquillo: è un professionista e se non dovesse piacergli ne scriverò una più bella in futuro». 

Fra gli autori c'è Gigi D'Alessio, che firmò anche quella del 2009, “Non riesco a farti innamorare”. Ci sono ritornelli in napoletano?
«Sì, ci sono alcuni passaggi in dialetto. Siamo in quattro a firmarla. Mio figlio ha scritto sia le sue barre che il testo in cui ha messo delle cose che avrebbe voluto dirmi da tempo».

Come si intitola il brano?
«Non glielo dico. Se passa, credo che sarebbe la prima volta che in gara ci sono padre e figlio».

Dopo il 2009 quante volte ha provata ad andare al Festival? 
«Quattro volte, due con Amadeus».

Del suo tormentone “Rossetto e caffè” si dice che somigli un po' troppo a “Pensiero stupendo” di Patty Pravo: come replica?
«È assurdo. Le note sono sette, sa quante canzoni ne ricordano altre? Per scrupolo, comunque, con gli altri due autori – Luca Barbato e Vincenzo D'Agostino – ci siamo messi a fare un'analisi precisa: c'è solo un giro armonico che può ricordarla, praticamente niente. Infatti, nessuno ha reclamato».

Una vita come la sua non ha avuto neanche il tempo di sognarla: ha mai pensato che avrebbe potuto fare altro?
«Forse l'attore, dopo aver girato Troppo forte, ma non era destino». 

Come superò quel momento?
«La mia famiglia ha sempre creduto in me. Mio padre, nonostante vivesse gli stessi problemi, mi ha sempre trasmesso fiducia. Io, invece, ho anche pensato di cambiare mestiere. Con mia moglie, eravamo fidanzati e ancora minorenni, decidemmo di comprare collane in plastica da rivendere per capire se un domani potevamo aprire un negozio. Solo che una voce dentro mi diceva: “Sei fuori, che stai facendo?”. E così mi misi a scrivere canzoni per altri, a cantare di nuovo... Iniziai a vivere tra Milano e Napoli, a presentare i miei brani, ad avere ansie, un po' di panico... Ero solo un ragazzo».

Ha sofferto di attacchi di panico? 
«Sì. Mi sono salvato con la lucidità. Ogni volta che andavo in ospedale mi rimandavano a casa perché non avevo niente. Così iniziai ad alzare l'asticella della mia autostima e ricominciai a sognare. Trovai così il primo contratto con la Dischi Ricordi. Partecipai al Festival Italiano presentato da Mike Bongiorno, lo vinsi e dalla pensione con il materasso per terra in pochi giorni passai a un hotel a cinque stelle».

Il negozio poi l'apriste?
«Sì, piccolo, con la famiglia di mia moglie, uno di quelli “Tutto a 1000 lire”».

Gigi D'Alessio, anni fa, confessò di aver avuto problemi con la camorra quando cantava alle feste: a lei è mai successo?
«Mai avuto problemi di questo tipo».

Nel 2010 però cantò al matrimonio della figlia del boss Marco Mariano.
«Io sono per la legalità sempre e comunque. Di sicuro quando mi chiedono una foto o un autografo non chiedo i documenti. E lo stesso valeva quando in passato mi esibivo alle varie feste. Certe chiacchiere creano solo confusione. Mi creda, tranne pochi, a Napoli sono tutti perbene. È una città luminosa».

Più coraggioso o incosciente?
«Coraggioso»

L'ultima cosa coraggiosa che ha fatto qual è stata?
«Dire no a qualche centinaia di migliaia di euro che poco fa mi hanno offerto i manager di un'importante casa discografica, gli stessi che otto mesi fa mi avevano umiliato rifiutando Rossetto e caffè. Sono rimasto con il mio gruppo di lavoro. Voglio continuare ad essere come sono. Per questo la gente mi ama».

I suoi riferimenti artistici quali sono?
«Pino Daniele. Pensi che lui stesso mi confessò che da bambino mi odiava perché la madre veniva a vedere le sceneggiate e tornava a casa piangendo per il personaggio che interpretavo io (ride, ndr)».

Prima dei 60 anni cosa vorrebbe fare?
«Tornare a Sanremo e cantare al San Carlo di Napoli. Adesso vado in America per cinque concerti, uno a Brooklyn, dove sono nato. Ho la doppia cittadinanza».

Per chi avrebbe votato?
«Non me ne intendo, però tutti i miei amici mi hanno detto che con Trump c'erano più soldi per tutti». 

E in Italia chi ha scelto?
«Non glielo dico, come il titolo della canzone per Sanremo. E poi il voto è segreto».

I capelli però sono tinti, vero?
«Certo, un po’. Lo fanno quasi tutti i cantanti».
 

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