Il risveglio europeo di fronte alle immagini di un Donald Trump trionfante è un Amarcord dello choc del 2016. Ma stavolta l’Ue sembra voler correre ai ripari, rendendosi meno dipendente da un alleato americano che imbocca la strada isolazionista. Si va dal commercio, messo alle strette dalle minacce di dazi a tutto spiano che rischiano di affossare la crescita Ue, al serrato dialogo tech avviato dai democratici ora in predicato di stop, fino agli investimenti in sicurezza e difesa nel quadro dell'altra organizzazione internazionale di stanza a Bruxelles, cioè la Nato.
L’APPROCCIO
L’Alleanza, nei suoi 75 anni di vita ha storicamente fatto perno su Washington, ma il magnate non ha nascosto velleità di disimpegno, il che lascerebbe l’Ue da sola a occuparsi di aiuti economici e militari all’Ucraina. I messaggi di congratulazioni sono abbottonati, diplomatici, ma celano i timori per le mosse imprevedibili e poco concilianti nei confronti di quelli che, appena una manciata di giorni fa, il tycoon aveva etichettato come «graziosi Paesini europei che si uniscono» e che saranno chiamati a pagare «un prezzo alto» per il vantaggio finora goduto nella bilancia commerciale con gli Usa.
«Siamo più che semplici alleati, lavoriamo insieme su una forte agenda transatlantica», ha teso la mano la presidente della Commissione Ursula von der Leyen, il cui secondo mandato coinciderà in pieno con la nuova amministrazione repubblicana a Washington. Celebrata in un video sulle note di Ymca dagli europarlamentari del gruppo di ultradestra dei Patrioti, la valanga conservatrice al di là dell’Atlantico è cavalcata dal più trumpiano tra gli europei, il premier ungherese e sodale del Cremlino Viktor Orbán, primo a celebrare «una vittoria disperatamente necessaria per il mondo» e che oggi (con un tempismo studiato a tavolino da mesi) ospiterà a Budapest i leader Ue per una cena informale in cui il confronto sull’esito delle presidenziali Usa sarà il piatto forte.
Il successo repubblicano sveglia dal torpore pure l’asse franco-tedesco fiaccato dalle difficoltà politiche a Parigi, dove Emmanuel Macron ha perso la maggioranza parlamentare, e Berlino, dove il cancelliere Olaf Scholz è alle prese con la crisi di governo. A rompere il ghiaccio è stato Macron: «Ho parlato con Scholz. Lavoreremo per un’Europa più unita, più forte e più sovrana in questo nuovo contesto. Collaborando con gli Usa e difendendo i nostri interessi e valori».
Insomma, gli europei si dicono più uniti di prima, ma il rischio concreto - si fa notare a Bruxelles - è che Trump si insinui nelle crepe sempre più profonde che dividono i partner Ue, privilegiando i rapporti bilaterali con le singole capitali e usando bastone e carota. Magari anzitutto quelle con orientamenti analoghi, ad esempio sulla retromarcia “green”, e con l’intento di accentuare le spaccature tra i governi, come in materia di acquisto di armi di fattura americana proprio quando la Commissione preme invece per incentivare gli appalti di “made in Europe”. Con il valore degli scambi più che raddoppiato nell’ultimo decennio, passando dai 416 miliardi del 2012 agli oltre 867 del 2022, il dossier commerciale sarà il primo banco di prova per le relazioni transatlantiche.
Il 31 marzo, infatti, scade la tregua che ha messo temporaneamente in pausa i dazi del 25% sull’acciaio e del 10% sull’alluminio di provenienza Ue che proprio Trump aveva istituito nel 2018, e a cui l’Ue aveva reagito con tariffe su prodotti-simbolo del “made in Usa” come jeans e Harley-Davidson. Il presidente-eletto sarebbe deciso non solo a non mollare la presa, ma a rilanciare la linea protezionistica con dazi generalizzati («È la parola più bella del dizionario») del 10-20% su tutto l’export dell’Unione (per la Cina, vero rivale, arriverebbero al 60%) con l’obiettivo di sostenere le aziende e i posti di lavoro a stelle e strisce.
I PRECEDENTI
Il copione sarebbe, quindi, destinato a ripetersi con l’Ue pronta - secondo quanto fatto filtrare a Bruxelles prima del voto - a stilare una lista di beni americani contro cui scatenare a sua volta una rappresaglia. Le tensioni del 2017-2020 fecero calare la produzione industriale dell’Eurozona il 2%, ha calcolato Goldman Sachs. A giudicare dal livello di scambi, le banche d’affari stimano che il Paese più colpito dalla contesa commerciale sarebbe la Germania, già provata dalla prospettiva di una seconda recessione consecutiva quest’anno, seguita da Italia e Francia. In caso di tariffe del 20% e di una risposta Ue di analogo segno (la materia è di competenza esclusiva), l’istituto economico tedesco Iw ha stimato che il Pil della zona euro subirebbe una contrazione media dell’1,3% nei prossimi anni, gettando il continente nella spirale della recessione.
Per l’Ue la partita è esistenziale, ed coincide con l’agenda competitività, scatto di reni «per evitare una lenta agonia» con un mix di (osteggiato) debito pubblico e investimenti privati al centro del report realizzato da Mario Draghi. Che domani, a Budapest, ne discuterà con i leader dei 27.