L'America ha scelto. Ha vinto Donald Trump, ma con lui, anche se non saranno in molti a coglierlo, ha vinto l'onda lunga repubblicana, espressione dell'anima profonda del Paese, di quello che si muove nella testa, nel cuore e nella pancia dei suoi cittadini. Quando nel voto popolare l'onda repubblicana porta in cascina cinque milioni di voti in più dei democratici e fa crescere i consensi anche negli Stati dove vince Kamala Harris che sono storicamente appannaggio del suo partito, bisogna almeno chiedersi quanto il candidato presidenziale repubblicano, che esce ovviamente vincitore assoluto, abbia beneficiato proprio di quel sentiment comune.
L'onda lunga repubblicana ci dice che l'America ha voluto girare le spalle a quel circuito autoreferenziale di élite che ti vuole organizzare la vita e pretende di insegnarti anche cosa devi dire correttamente, finanche quali parole usare, per esprimere concetti e valori che non sono tuoi e loro ti vogliono imporre. Parliamo di qualcosa che si chiama Woke, una specie di sveglia per i diritti estremi delle super minoranze, o della “cancel culture” che vuole riscrivere la storia, nutrendosi di battaglie ideologiche che si coagulano intorno a movimenti elitari democratici dai quali troppi cittadini si sentono sempre più distanti. Anche quando le cose in economia vanno meno male che altrove, come è oggettivamente in America, la percezione diventa negativa di fronte a tanta ideologia che trasferisce distanza e alimenta preoccupazioni reali o percepite. Questo vale per la sicurezza, per l'immigrazione e per lo stesso futuro dell'economia.
Se Trump ha influenzato il programma che i cittadini americani hanno premiato ovunque con il loro voto, bisogna riconoscergli i meriti avendo a mente che essi fanno parte dell'onda lunga repubblicana. Nelle sue prime parole, dopo l'esito delle urne, ci sono la magnifica vittoria, i riferimenti all'immigrazione e alle tasse da alleggerire, c'è ovviamente l'America che diventa grande, ci sono la Cina, la Russia, manca l'Europa. Non c'è proprio nella sua testa e non c'è, quindi, attenzione per l'Europa che è evidentemente considerata un'amica subalterna. I problemi dell'Europa sono dell'Europa.
Lui ha il problema americano, del superamento delle élite e della crescita ulteriore della sua economia, e grazie alla forza del successo elettorale gode di un potere concentrato su tutte le istituzioni americane che gli garantisce un grado di libertà per fare bene ciò che si propone di fare. Ha due anni davanti a sé con il massimo di agibilità. Non vale ciò che ha detto o promesso in campagna elettorale, lo abbiamo già visto all'opera, vale piuttosto ciò che farà, ciò che vuole fare davvero e noi staremo a vedere.
Quello che da questo risultato elettorale emerge con chiarezza è che è finita un'epoca. È finita una fase storica, quella successiva alla Seconda guerra mondiale, alla lunga stagione della cortina di ferro. All'epoca gli americani avevano vinto una guerra, ma hanno fatto il Piano Marshall per aiutarci. Oggi ti dicono che non vogliono più aiutare l'Europa. È arrivata l'ora che l'Europa deve farcela con le gambe sue. È una grande opportunità. Perché il mondo di allora non esiste più, oggi il nuovo mondo è multipolare e il Vecchio Continente deve diventare nuovo guadagnando la maggiore età dentro un quadro complicato sul piano economico e geopolitico a causa delle guerre. L'Europa deve dimostrare di avere finalmente conquistato la maturità e di sapere finalmente camminare con le sue gambe nei grandi investimenti del futuro, come nella difesa, come nelle politiche industriali non ideologiche e in molto altro ancora. Nell'Europa dei governi, che è l'unica ipotesi rimasta realmente sul tappeto, si apre uno spazio importante a livello internazionale per la leadership politica italiana di governo, quella di Giorgia Meloni, operando nel solco del conservatorismo illuminato per contribuire a tutelare l'equilibrio generale e a cambiare in profondità.