Dal gioco alla sfida, dalla vita alla morte. Tutto in un attimo, quanto basta a devastare l’esistenza di due giovanissimi. Sono le cinque del mattino, in piazzetta Sedil Capuano, quando un gruppetto di amici si ritrova attorno a una pistola, la loro pistola. Ce l’ha in mano il più grande del gruppo, si chiama Renato Caiafa, che ha davanti a sé l’amico di sempre, parlamo del 18enne Arcangelo Correra. Era un gioco, non c’erano motivi di astio tra i due. E tutti erano consapevoli che fosse un gioco, mentre incitavano Renato a sparare. Anche Arcangelo lancia la sfida e gli mostra il petto. Un attimo dopo il colpo di pistola si conficca alla fronte di Arcangelo.
Un retroscena drammatico, che è stato raccontato al giudice dallo stesso 19enne indagato per l’omicidio dell’amico Arcangelo. Uno scenario che si fa sempre più chiaro, anche alla luce di una convinzione sottolineata dal giudice: la storia dell’arma trovata sotto l’auto fa acqua da tutte le parti. Quella pistola non era stata appoggiata sul copertone di una vettura in sosta, ma era in possesso di quel gruppetto di ragazzini. Caiafa ha mentito, per il gip. Una storia che spinge la Procura di Napoli a valutare una nuova ipotesi investigativa. Se nelle primissime battute investigative, Renato Caiafa era indagato per omicidio colposo (oltre che per armi e ricettazione), in queste ore il pm punta ad accertare una nuova pista: Caiafa jr è infatti indagato per omicidio volontario, con dolo eventuale.
Tradotto dalla formula giuridica, chi maneggia un’arma carica accetta e fa suo il rischio di colpire e uccidere una persona. Quanto basta a tenere in cella Renato Caiafa, mentre si lavora sulla balistica. Ieri l’autopsia, decisivo sarà capire se il proiettile abbia raggiunto la fronte di Arcangelo dall’alto o dal basso. Difeso dal penalista napoletano Giuseppe De Gregorio, Renato Caiafa resta detenuto, secondo quanto stabilito dal gip Maria Gabriella Iagulli, al termine della ricostruzione svolta dagli uomini della Mobile del primo dirigente Giovanni Leuci.
Vicenda dolorosa, che conferma la necessità di bloccare la circolazione delle armi in città, come emerge dalle contraddizioni rilevate dal giudice a proposito del racconto di Renato Caiafa. In sintesi, nessuno ha mai creduto alla storia del ritrovamento occasionale della pistola. Inverosimile, secondo il gip, immaginare che fosse stata appoggiata sullo pneumatico di un’auto in sosta: «Nessuno avrebbe mai lasciato un’arma carica per strada, considerato il suo valore. Chi le possiede, non le abbandona - è la sintesi del ragionamento del giudice -, perché si tratta di armi che possono essere usate mille e mille altre volte ancora, in quanto clandestine». Poi la storia del posto in cui sarebbe stata rinvenuta, a proposito della notte in cui tutte le armi (e le ruote) sono rigorosamente nere: «Un’arma nera - dice il gip - su uno pneumatico nero, lì dove la notte è nera, come è stato possibile scorgerla in modo accidentale?».
Due amici della pelle, cresciuti assieme, fino a quel colpo di pistola. Dopo aver colpito Arcangelo, Renato non ha dubbi sul da farsi. Vede il sangue, attorno a lui tutti quanti gli domandano «ma che hai fatto?», mentre il 18enne barcolla. Riesce a dire qualche parola, la vittima: all’inizio prova a tranquillizzare tutti («non è successo niente...»), poi cade a terra. Viene portato in ospedale in sella a uno scooter guidato da Renato Caiafa, messo al centro del sellino, in coda al quale viaggia un altro ragazzo, che ha 17 anni. Durante il viaggio verso il Pellegrini, Arcangelo pronuncia le sue ultime parole, rivolgendosi proprio all’amico di sempre: «Renato, non mi lasciare...». Una volta finito in manette, il 19enne indagato prova a ricondurre tutto a un evento accidentale. E agli inquirenti ricorda, «di essere amico di Arcangelo da 13 anni: siamo andati a scuola assieme, ed è una persona con cui ho condiviso tutta la mia infanzia e la mia adolescenza. Arcangelo è come un fratello per me - si legge nelle primissime frasi messe a verbale - è stato un incidente».
Tutto vero, fino a prova contraria, anche se il giudice sottolinea la «lucidità» con cui Renato si è mosso nelle fasi immediatamente successive all’omicidio. Lascia in ospedale l’amico di sempre, poi si allontana dalla zona. Chiama lo zio, al quale spiega il fattaccio avvenuto poche ore prima sotto casa e gli chiede di andare a prelevare la pistola gettata a terra e di rimuovere lo scooter. Non è finita. Sempre in queste ore, prima di decidere di consegnarsi alla polizia, Renato fa un’ultima mossa: quella di gettare via gli abiti sporchi di sangue. Lucidità al limite del cinismo, al netto della morte dell’amico di infanzia. Per il giudice, «tutta la condotta post factum dimostra che quell’arma non era stata trovata per caso». Inchiesta condotta dal pm Ciro Capasso, la pista principale è ora quella di omicidio volontario con dolo eventuale.