«Sono decenni che assistiamo a dibattiti, analisi e proposte sugli strumenti da adottare per arginare l’allarme della violenza giovanile, ma la verità è che non si è mai fatto niente di concreto per riuscirci. È stato perso tempo prezioso: e quando poi esplodono i bubboni, come nell’ultimo tragico caso del 15enne ucciso a Napoli, allora torniamo a ricordarci che c’è un problema enorme da affrontare. Se però non si riparte da zero, cioè dall’educare i genitori ad essere genitori responsabili, resteremo impantanati in discussioni che non portano a niente».
Piero Avallone è un magistrato di lungo corso che dopo aver lavorato per un decennio alla Procura minorile di Napoli è stato presidente dello stesso Tribunale partenopeo, e oggi presiede quello di Salerno. Dalle sue parole emerge un’analisi netta e chiara del difficile momento che caratterizza l’emergenza giovanile che diventa troppo spesso oggetto della cronaca nera e giudiziaria.
Anni di dibattiti sul fenomeno che non hanno prodotto risultati. Che cosa sta succedendo, che cosa c’è dietro questa esplosione dei fenomeni di devianza giovanile tanto grave?
«Quello che le cronache raccontano quando accadono episodi di efferata violenza come quello che ha coinvolto Emanuele Tufano e chi lo ha assassinato non sono che la punta di un iceberg che ha radici profonde. Sotto quella punta c’è un magma incandescente di disagio fortissimo che coinvolge i giovanissimi, e che non è stato mai attenzionato».
A che cosa si riferisce?
«Le nuove marginalità che coinvolgono i ragazzi derivano dalla solitudine nella quale sono stati abbandonati e che ne ha favorito il passaggio ad un mondo virtuale che avrebbe invece richiesto - tanto per cominciare - il controllo della famiglia, da un lato; ma anche dalla mancanza di opportunità, di proposte alternative nobili e accessibili a tutti: proposte culturali ed educative che passano attraverso lo studio, il cinema, lo sport, la palestra ed altro. Tutto questo è mancato, e queste sono purtroppo le conseguenze».
È mancata un’offerta di socialità?
«Esatto. E, tornando alla fuga dei ragazzi verso mondi virtuali, c’è da dire che purtroppo la pandemia da Covid ha contribuito moltissimo all’isolamento. La cartina di tornasole è rappresentata dalla massiccia richiesta di psicologi, sintomatica del disagio che proviene dai minori».
E in che misura questi vuoti hanno lasciato il segno? È ipotizzabile che ciò abbia inciso soprattutto sulle fasce sociali più deboli e sovraesposte ad un ambiente nel quale il rispetto della legalità e dei doveri è più carente, come in alcuni quartieri considerati a rischio?
«Non c’è dubbio che il disagio che porta un minore a imboccare la strada sbagliata, ad avere come modelli i boss di camorra o a uscire di casa armati emergono più diffusamente in certi ambienti degradati. Attenzione però: questi modelli negativi affascinano oggi non solo il 15enne di Scampia o di Ponticelli, tanto per capirci; no: il fenomeno è drammaticamente trasversale, e basta guardare a ciò che alcune settimane fa è accaduto nel quartiere “buono” di Napoli, a Chiaia, dove decine e decine di incensurati studenti dei licei più prestigiosi della città hanno scatenato una rissa violentissima, dandosele di santa ragione. Dunque si commetterebbe un errore a pensare che la violenza minorile coinvolge solo ambienti per così dire “border line”».
Qualcuno sostiene che in queste omissioni educative ci sia spazio per le responsabilità che ha avuto anche la scuola. È d’accordo?
«Per fortuna oggi la musica è cambiata, grazie a un intervento massiccio della Procure minorili che sensibilizzano le direzioni scolastiche a fornire un quadro anche sulla evasione scolastica».
Può servire una modifica normativa che preveda l’abbassamento dell’età imputabile?
«No. Esistono già tutti gli strumenti che sono le cosiddette misure amministrative, dall’affidamento ai servizi sociali al collocamento in comunità. Ricordiamoci che quando parliamo di soggetti al di sotto dei 14 anni siamo di fronte a ragazzi che vanno recuperati, e le misure coercitive non servono»