«I problemi del Sud del mondo sono anche i problemi del Nord, e viceversa». Quando Giorgia Meloni prende per la prima volta la parola al G20 di Rio de Janeiro lo fa per sposare a pieno una delle battaglie identitarie del presidente brasiliano Lula: sconfiggere la fame nel mondo. L’Italia infatti, con sfumature chiaramente più nazionaliste e conservative rispetto al Brasile, ha appoggiato l’alleanza globale lanciata durante il summit per «sradicare questa piaga che disonora l’umanità». E lo ha fatto «convintamente» come ha spiegato Meloni, non solo perché l’iniziativa è nel solco di quanto fatto dal G7 con l’Apulia Food Systems Initiative ma soprattutto perché, come teorizzato con il Piano Mattei, «l’interdipendenza dei nostri destini è un fatto» e impone di «ragionare fuori dagli schemi» del passato. Non proprio tutti però. Il ricorso alla ricerca ad esempio, è da considerarsi legittimo solo a patto che «non sia utilizzata per produrre cibo sintetico». Allo stesso modo il libero mercato non deve penalizzare i Paesi più solidi.
Se è vero che l’afflato sudglobalista del G20 sta dominando la prima visita sudamericana della premier che questa sera volerà in Argentina per un bilaterale con Javier Milei, lo è pure che dall’altro lato dell’Atlantico il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida si è messo di traverso rispetto all’accordo tra Ue e Mercosur (il mercato comune composto da Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay), sostenendo assieme a Francia e Germania che la deregolamentazione sperata a queste latitudini non è sostenibile. Il settore, ha spiegato il ministro, è già «drammaticamente indebolito» dalle crisi geopolitiche, «difficilmente potrebbe reggere l’impatto delle importazioni con prezzi decisamente più bassi».
L’IMPATTO DELLE GUERRE
Un punto, quest’ultimo, rimarcato a Rio dalla stessa Meloni. Il conflitto in Ucraina infatti, dove la guerra di aggressione russa contro uno Stato sovrano ha portato all’uso del grano come «strumento di guerra», «aggrava» il fenomeno della fame nel mondo mettendo in ginocchio le nazioni più deboli.
Parole in linea con il messaggio inviato da Papa Francesco che ha chiesto ai leader di «riorientare i fondi attualmente assegnati alle armi e ad altre spese militari verso un fondo globale progettato per affrontare la fame e promuovere lo sviluppo nei paesi più poveri».
D’altro canto il dossier ucraino è con ogni probabilità il più complesso tra quelli affrontati al tavolo dei 55 leader atterrati in Brasile. Anche se, a dispetto della tassa globale sui super-ricchi e ad un’altra che promuove l’uguaglianza di genere rifiutate dall’Argentina di Milei paralizzando le conclusioni finali del vertice, sul conflitto si è invece trovata una chiave diplomatica per concludere la negoziazione. Il concetto attorno a cui i grandi della Terra si sono accordati è infatti quello piuttosto fragile della «pace durevole». Tant’è che è l’intesa è arrivata mentre la Russia intensificava i suoi attacchi contro gli obiettivi civili ucraini (contraddicendo le conclusioni del G20 di Nuova Delhi dello scorso anno) e Joe Biden autorizzava l’uso dei missili americani anche in territorio russo. A mille giorni dall’invasione russa e con Donald Trump in arrivo alla Casa Bianca, le cose paiono evolvere rapidamente.
Anzi, il riposizionamento di massa dei Paesi occidentali a favore di una tregua che cristallizzi lo status quo per certi versi parrebbe già cominciato.
LA PROPOSTA TURCA
Al di là delle promesse del Tycoon il turco Recep Tayyip Erdogan ha infatti portato al tavolo del G20 la proposta di congelare il conflitto ad oggi, istituire una zona smilitarizzata che faccia da cuscinetto e porre una moratoria sull’accesso alla Nato di Kiev da compensare con adeguate forniture militari.
Uno schema che oggi non può dirsi maturo ma che, scommettono fonti diplomatiche italiane, da febbraio in poi potrebbe improvvisamente cambiare passo.