Migranti in Albania, il blitz di FdI per aggirare le toghe

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Avanti. Un ricorso alla volta. Il governo non intende mettere in stand-by il patto fra Italia e Albania sulla detenzione extraterritoriale dei migranti. Né fermerà i viaggi delle navi della Marina in attesa che la Corte di giustizia europea si esprima una volta per tutte e risponda ai dubbi dei tribunali italiani.

Al Viminale calzano l’elmetto e si preparano a fronteggiare nelle aule di giustizia il muro dei giudici contro le norme del governo. Mentre la maggioranza prepara un nuovo blitz contro le sezioni immigrazione dei tribunali che stanno smantellando l’impianto dell’accordo: un emendamento della deputata di Fratelli d’Italia Sara Kelany presentato al decreto flussi propone di sottrarre alle sezioni la competenza sulle convalide dei trattenimenti. E propone di affidarle alle Corti di Appello, considerate dal centrodestra «meno politicizzate».

Proposta censurata dalle opposizioni: «Governo e maggioranza intervengono compulsivamente per mascherare il fallimento dell'esperimento albanese», tuona il segretario di Più Europa Riccardo Magi. Con ordine. L’ennesimo stop imposto dal tribunale di Roma, con il ritorno in Italia dei sette migranti bengalesi ed egiziani approdati in Albania, ha sì destato preoccupazione ai piani alti del governo.

La Corte dei Conti ha già acceso i riflettori sul piano albanese e i suoi costi per le casse dello Stato: quasi 700 milioni di euro secondo il ministero di Matteo Piantedosi, molto di più accusano invece le opposizioni. Ma la scure dei magistrati contabili, «che si abbatterebbe su di noi anche se smettessimo di inviare migranti in Albania», confessa una fonte di vertice, non basta a suggerire la resa. Semmai, si diceva, la battaglia si sposta in tribunale. Da settimane l’Avvocatura dello Stato prepara il dossier per difendere il Viminale nei ricorsi contro le sezioni immigrazione di fronte alla Corte di Giustizia europea. E tuttavia non è sui giudici del Lussemburgo che sono puntati gli occhi del governo.

LA PARTITA IN CASSAZIONE

C’è prima un altro appuntamento clou: il 4 dicembre la Corte di Cassazione adita proprio dal tribunale di Roma dovrà dirimere la vera questione di fondo. Può un giudice decidere in autonomia se un Paese di provenienza di un migrante è sicuro o no? O deve attenersi rigidamente al decreto sui Paesi sicuri che il governo ha appena aggiornato e reso legge con un emendamento al decreto flussi? Due settimane al momento della verità. A cui il governo è convinto di arrivare con ottime ragioni da difendere. Del dossier si occupa senza sosta il sottosegretario a Palazzo Chigi Alfredo Mantovano, giurista ed ex giudice in campo per studiare ogni cavillo utile a difendere la causa. Nella convinzione ferrea che «sia la Cassazione che la Corte di Giustizia Ue ci daranno ragione».

A renderla ancora più ferrea c’è un appiglio legale che a Palazzo Chigi sono convinti possa ribaltare le sorti dei ricorsi contro le toghe. Una recente sentenza proprio della Corte di Cassazione, di metà ottobre, su un caso apparentemente diversissimo: la richiesta di estradizione del Marocco emessa a febbraio per un cittadino, Driss Farhane, accusato per il reato di immigrazione clandestina. Interpellata dalla Procura generale presso la Corte di Appello di Brescia, la Cassazione risponde lo scorso 18 ottobre. Ed entra nel merito di una questione che sarà al centro dei ricorsi congiunti il 4 dicembre. Nello specifico spiega che per accertare l’eventuale rischio di persecuzioni o trattamenti inumani in patria per la persona da estradare si dovrebbe far leva «sulla base di fonti attendibili».

Ovvero, per il caso del cittadino marocchino, «non sarebbe stato irrilevante ai fini della decisione la valutazione del decreto del 7 maggio 2024 con il quale il Governo italiano ha aggiornato la lista dei Paesi di origine sicuri». Proprio lo stesso atto - un atto avente forza di legge, ora che è stato inserito nel decreto flussi - a cui il governo chiede ai giudici di attenersi quando decidono se convalidare o meno il trattenimento dei migranti nei centri di riconoscimento. Ebbene, spiega la Cassazione, la lista dei Paesi sicuri «è aggiornata sulla base di pertinenti informazioni allo scopo di assicurare il pieno rispetto delle disposizioni costituzionali concernenti i diritti inviolabili dell’uomo e le specifiche situazioni personali del singolo richiedente protezione internazionale». Insomma, questa almeno è la versione che il governo farà valere nelle aule, quel decreto non è un optional e i giudici devono tenerne conto. A breve un primo verdetto.

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