C’è chi ha dato l’ordine di ripulire la zona, chi ha procurato la candeggina. C’è chi ha fatto sparire i soldi inzuppati di sangue, gettandoli nelle fogne, poi c’è chi è andato ad acquistare la benzina, giusto dieci euro di carburante, per dare fuoco al cadavere. Sono questi i punti dell’inchiesta sull’omicidio di Gennaro Ramondino, consumato lo scorso 31 agosto a Pianura. Una vicenda drammatica, c’è un 16enne reo confesso, che ha dichiarato di aver fatto fuoco e di aver ucciso il 20enne, suo amico di sempre.
Ora si punta a ricostruire le altre responsabilità, a partire dal mandante del delitto. Stando alle ipotesi investigative, l’ordine di uccidere sarebbe partito dal carcere, tramite una telefonata fatta durante il colloquio tra il boss (o aspirante tale) e la sua compagna: in questa conversazione sarebbe stato filtrato il messaggio che ha spinto il 16enne ad uccidere l’amico: “Sai già cosa devi fare. Gennaro si sta facendo troppi soldi”.
Il riscontro
Parole difficili da riscontrare da un punto di vista investigativo, ma che bastano da sole a raccontare uno scenario drammatico. Siamo a Pianura. Tutto ruota attorno a una piazza di spaccio in via Comunale Napoli, quando si decide di uccidere Gennaro Ramondino. Da chi è partita la decisione? Secondo il racconto di P.I. l’ordine sarebbe arrivato dai grandi del gruppo. Più precisamente da parte di un uomo di trenta anni che puntava al controllo delle piazze di smercio di cocaina in una fetta di periferia occidentale. Dal carcere alla strada, secondo una ricostruzione che è ora al vaglio della procura dei minori (al lavoro il pm Ettore La Ragione), ma anche della Dda di Napoli. Drammatica la confessione resa dall’esecutore materiale del delitto.
Difeso dalla penalista Antonella Regine, il 16enne ha ammesso di aver ucciso Ramondino, ma ha anche tirato in ballo chi gli avrebbe ordinato di premere il grilletto: “Era un mio amico, sono cresciuto assieme a lui. Non avrei mai preso una iniziativa del genere, se non me lo avessero chiesto i grandi. Non ho contribuito io a dare fuoco al suo cadavere, avevo già fatto tanto uccidendolo”. Storia di camorra e di emarginazione. Lui, il ventenne ucciso, aveva il collo ricoperto di tatuaggi, amava le scarpe griffate, era anche molto generoso (“offriva bottiglie di vodka a tutti”); l’altro, il 16enne è uno dei tanti minori della zona: “Non studio e non lavoro. Sto a sistema; faccio parte del contesto.
Mi hanno chiesto di farlo e l’ho fatto”. In che modo? “Gennaro venne nel sottoscala, il primo colpo l’ho sparato in alto, lui si è fermato e l’ho guardato. Poi ho capito che dovevo andare avanti, che se era armato mi uccideva. E gli ho sparato in petto”. Poi è entrata in azione la squadretta. Bustoni enormi per trascinare il corpo del ventenne; la candeggina per il sangue, via i soldi inzuppati di rosso; poi il viaggio nell’auto di Ramondino. Infine le fiamme: “Uno del gruppo si bruciò anche le sopracciglia”, si legge nelle carte. Ma l’inchiesta va avanti. Al momento ci sono degli indagati per favoreggiamento e per occultamento di cadavere.
Il diktat
Resta un tassello finale: quello dell’ordine di uccidere, che sarebbe partito da una cella, tramite un telefono cellulare. Non è chiaro se si tratta di una conversazione lecita o di un dialogo illegale. Agli atti c’è una frase su cui si cercano riscontri: “Lui sa quello che deve fare”, a proposito della necessità di uccidere un presunto emergente nella gestione della droga, in un quartiere dove anche un sottoscala si trasforma in una miniera d’oro.