Nel 1967 il regista francese Jacques Tati nel film Playtime si divertiva a prendere in giro la modernità e la trasformazione del mondo del lavoro: uffici sempre più trasparenti, postazioni ipertecnologiche, spostamenti in file ordinate per andare al lavoro, che trasformano l’esperienza dei dipendenti in un’asettica discesa in un labirinto senza fine. A quattro anni dalla pandemia, il sogno della Silicon Valley di lasciarsi alle spalle la modernità di metà ’900 per entrare nel mondo del lavoro del futuro - da casa, in spazi virtuali, costantemente connessi - si sta ridimensionando. E sono proprio i colossi tech che negli ultimi mesi hanno iniziato a frenare la transizione verso un futuro smart e ibrido preferendo richiamare i lavoratori. Solo ieri 3M si è unita a un gruppo sempre più numeroso, che comprende Amazon, Meta e Google.
IL GIGANTE
Il gigante che dà lavoro a 85.000 dipendenti e produce articoli per la sanità, applicazioni industriali, elettronica ed è pioniere nella ricerca, ha chiesto ai suoi dirigenti di livello superiore di tornare in ufficio tre giorni alla settimana: dal martedì al giovedì per quelli che ha definito «giorni di collaborazione». Per ora solo i direttori sono obbligati a rientrare mentre tutti gli altri manager possono scegliere. La decisione arriva dal nuovo Ceo, Bill Brown, che a giugno, nella sua prima call interna con l’azienda, ha detto che «i prodotti stanno invecchiando» e che è fondamentale «rilanciare l’innovazione». In tutto questo, il rientro in ufficio è fondamentale. Il consulente del lavoro di 3M Brian Elliott sostiene infatti che tornare alla presenza in ufficio tre giorni alla settimana «potrebbe funzionare», mentre lasciare i lavoratori liberi di scegliere senza alcuna indicazione porterebbe verso la confusione.
LA LETTERA
La stessa cosa, in modo più deciso, è stata fatta da Amazon qualche settimana fa: in una lunga lettera ai dipendenti il Ceo Andy Jassy aveva chiesto a tutti di rientrare da gennaio, portando la settimana lavorativa dall’ufficio a cinque giorni. Ovviamente l’annuncio non è stato accettato in modo positivo da tutti. E all’inizio della settimana, Jassy è tornato sull’argomento ricordando che ci saranno delle eccezioni e che i contratti in cui il lavoro da casa è un benefit saranno rispettati. Questo anche se il rientro è secondo il Ceo fondamentale per «la cultura aziendale e la produttività». La sensazione è che nei moti più profondi che regolano le strategie della Silicon Valley qualcosa stia cambiando. E la scelta di Amazon di uscire allo scoperto per prima, obbligando un ritorno in ufficio cinque giorni su cinque, potrebbe semplicemente essere un segnale ormai chiaro e istituzionalizzato di questa scelta: fino ad ora, infatti, i colossi tech sono stati molto più ambigui sulla questione, dando molto spazio a casi particolari e al lavoro ibrido. Google, enorme proprietario di immobili in tutto il mondo e in particolare a New York e in California, ha provato a diminuire i giorni di lavoro smart, nonostante ci siano state delle mezze rivolte interne con molti lavoratori che hanno definito la scelta un tentativo di «essere controllati come bambini a scuola».
Anche gli altri grandi colossi hanno politiche di lavoro ibrido che richiedono tre giorni alla settimana in ufficio: Apple è stata tra le prime, quando il Ceo Tim Cook aveva parlato di voler «ristabilire la collaborazione in persona». Se guardiamo i numeri legati al mercato del lavoro negli Stati Uniti ci accorgiamo di due elementi importanti: dal periodo post pandemico quando l’80% dei lavoratori americani non andava in ufficio, nel 2024 questa percentuale si è ridotta moltissimo. Solo il 14% (22 milioni di persone) ha il privilegio di stare a casa tutta la settimana. Questo però si scontra con quello che i lavoratori vogliono: il 71% dei dipendenti in tutto il mondo dice di preferire lo smart working, secondo i dati di Statista. E qui si apre un secondo problema: da una parte c’è il rischio che le aziende che invece sceglieranno politiche più flessibili (vedi Microsoft) potrebbero riuscire a rubare i talenti migliori a quelle che invece saranno più conservatrici. Dall’altra c’è tutta la discussione sulla produttività: mentre alcune aziende tech sostengono che ci sia stato un calo della produttività e per questo è meglio tornare in ufficio, un mese fa l’economista di Stanford Nicholas Bloom ha scritto sul blog del Fondo monetario internazionale che è fondamentale puntare sul lavoro ibrido, visto che lavorando da casa si elimina il viaggio verso il lavoro ma che riducendo il tempo in ufficio si potrebbe ridurre la capacità dei dipendenti di imparare, di fare innovazione e di comunicare. Emblematica è la storia di una società americana che ha assunto un esperto IT nordcoreano senza saperlo: l’uomo ha rubato dati sensibili e ha cercato di ricattarli dopo essere stato licenziato. Il tecnico, assunto come consulente, aveva falsificato la sua storia lavorativa e i suoi dati personali. Dopo essere stato licenziato per scarso rendimento, ha iniziato a inviare email alla società con prove del furto dei dati e ha chiesto un riscatto in criptovaluta per non pubblicare o vendere le informazioni. L'FBI ha già da tempo avvertito che migliaia di lavoratori IT nordcoreani si fingono non-nordcoreani per ottenere lavori remoti negli Stati Uniti e ottenere denaro per lo stato nordcoreano.
IL PROBLEMA
C’è infine un problema economico legato agli uffici e alle politiche di rientro. Parlando con Bloomberg, Victor Khosla, fondatore di Strategic Value Partners, ha detto che «siamo vicini a uno tsunami». L’addio agli uffici degli ultimi 4 anni ha infatti lasciato migliaia di palazzi vuoti e spinto i proprietari a indebitarsi per non affondare. Ora, alla fine del 2025 la società britannica di real estate Jones Lang LaSalle sostiene che questo debito da 1.500 miliardi dovrà essere restituito, portando appunto verso questo tsunami, se prima di quel momento non si troverà una soluzione, riportando i dipendenti in ufficio o pensando a nuovi possibili usi per questi spazi.