Terni, chirurgo muore di leucemia a 58 anni per le esposizioni ai raggi X: usl condannata a pagare 550mila euro

1 mese fa 22

E’ morto di leucemia a 58 anni e la malattia, per i giudici che hanno seguito il caso dopo la denuncia dei familiari, il suo decesso sarebbe stato causato dall’esposizione ai raggi X senza alcuna protezione.

Per il decesso del chirurgo, per anni in forza all’ospedale di Amelia dove ha effettuato centinaia di interventi chirurgici, la corte d’appello di Perugia condanna l’Usl Umbria 2 a pagare ai familiari un risarcimento di 550mila euro oltre agli interessi. I giudici, all’esito di perizie medico legali, parlano di malattia contratta sul luogo di lavoro.

Cosa è successo

I fatti risalgono agli anni ’80 - ’90. Il chirurgo, dipendente dell’Usl, era costantemente impegnato nella sala operatoria dell’ospedale di Amelia. Durante gli interventi veniva utilizzato un particolare macchinario, il cosiddetto amplificatore di brillanza a raggi X, per la diagnosi intraoperatoria. L’amplificatore emetteva, stando a quanto accertato dalle perizie «radiazioni ionizzanti alle quali il medico chirurgo, che si trovava in quei frangenti vicino al paziente, intento ad operare, veniva continuamente esposto, in assenza di barriere e di indumenti (camici piombati, guanti, collari, occhiali) che lo proteggessero e che sarebbe stato obbligo del datore di lavoro fornirgli».

Questa continua e ripetuta negli anni esposizione alla sostanza nociva, senza alcun monitoraggio delle dosi di raggi X assorbite e senza alcuna protezione dagli stessi, avrebbe fatto sì che il chirurgo contraesse una particolare forma di leucemia, leucosi acuta mieloide M1, che il 29 agosto del 2008 lo ha poi condotto alla morte.

La denuncia di moglie e figlia

La moglie e la figlia del chirurgo hanno chiesto di far luce sul decesso del congiunto. Quattro anni fa si sono rivolte agli avvocati Teresa Lavari, Paolo Crescimbeni e Annalisa Di Giuseppe che hanno avviato l’azione legale per ottenere il risarcimento danni. L’ospedale, questa la tesi sostenuta nel ricorso dello studio Crescimbeni-Lavari «avrebbe dovuto salvaguardare la salute del proprio dipendente, quantomeno fornendogli strumenti per proteggersi dalle radiazioni la cui nocività era già all’epoca ben nota, specialmente in presenza di un assorbimento intenso e costante».

Una tesi che viene accolta dal giudice del lavoro del tribunale di Terni, con sentenza ora confermata anche dalla corte d’appello di Perugia. Diversi testimoni che lavoravano a stretto contatto col chirurgo hanno confermato che lui era stato «costantemente esposto a radiazioni ionizzanti, senza che il datore di lavoro avesse provveduto a fornirgli un camice piombato, piuttosto che guanti o occhiali che lo schermassero dai raggi X, ovvero a monitorare sin dall’inizio il livello di effettiva esposizione».

Per i legali la sentenza è «il riconoscimento di danni patiti sia direttamente dal chirurgo deceduto, consapevole della propria malattia e della propria imminente fine, e dai suoi familiari, strappati all’affetto del proprio caro costretto a lavorare in un ambiente nocivo»

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