Fino a poche settimane prima del voto, nessuno pensava che Donald Trump potesse davvero farcela. I sondaggi erano chiaramente a favore della candidata democratica, Kamala Harris, e l’ex presidente repubblicano appariva in affanno, debole in molti degli Stati-chiave.
Per il tycoon non era una sfida semplice. Aveva impostato la sua campagna costruendola sulla sfida con Joe Biden, scommettendo sulle sue debolezze fisiche, accusandolo di non essere mentalmente in grado di gestire il Paese, colpendolo sui grandi temi che hanno diviso l’America. Ma con Kamala era diverso.
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Trump e la rincorsa alla presidenza
Più giovane di Trump, donna e anche rappresentante di un mondo, quello delle minoranze, sempre più forte, Harris rappresentava il nemico perfetto di The Donald. E l’endorsement del sistema culturale, politico e mediatico del Partito democratico, insieme al sostegno dei pezzi grossi del movimento come degli Obama e di tutto il jet set sembrava essere la chiave di volta per sconfiggere definitivamente il tycoon.
Qualcosa però è andato storto. E Trump, nonostante tutto, ha saputo farsi largo grazie a una miscela di elementi che hanno reso la candidatura di Harris sempre meno amata dagli elettori (soprattutto gli indecisi) e l’ipotesi di un ritorno del repubblicano sempre meno difficile da accettare. The Donald e il partito repubblicano, compattamente Maga (Make America Great Again) lo avevano capito soprattutto negli ultimi giorni di campagna, quando quella forbice di voti nei sondaggi si è sempre più assottigliata. Ma non si tratta completamente di un fulmine a ciel sereno. Trump ha vinto perché la sua propaganda ha saputo colpire dritta al cuore dell’elettorato. E dall’altro lato, Harris ha dimostrato non solo la sua debolezza come leader ma anche l’incapacità di fare breccia soprattutto al centro.
I fattori
A influire sono stati diversi fattori. Un primo elemento è senza dubbio il fatto che il Partito democratico ha sbagliato candidato, così come prima, fino a giugno, ha sbagliato a non ammettere che Biden non fosse più un candidato presidente spendibile per un altro mandato. L’opinione pubblica americana si è sentita tradita dall’amministrazione Biden e anche dai media che hanno prima sostenuto il vecchio presidente per poi scaricarlo. Mentre Trump, dall’altro lato della barricata, ha indubbiamente dimostrato di avere ancora un sostegno fortissimo in vari strati del Paese, tanto da non avere nemmeno allontanato quell’elettorato indeciso che, come sempre, si è dimostrato decisivo. Il Partito repubblicano è tutto trumpiano da anni, e the Donald non ha mai avuto rivali nemmeno nelle prime fasi delle primarie. Ma evidentemente c’è una parte di popolazione Usa che non si è lasciata convincere dagli scandali né dalle sue cadute di stile (anche molto frequenti), facendo capire di essersi costruito un personaggio che piace.
Il candidato
Nessuno può dire realmente quanto in questo possa avere influito l’essere un uomo contro una candidata donna. Il New York Times spiega in un recente sondaggio che Trump era in vantaggio su Harris soprattutto tra gli uomini, con il 55 per cento dei consensi contro il 41. E questo sempre secondo l’indagine del Nyt valeva non solo per la questione del genere in sé ma anche perché il suo modo di fare e le sue ricette economiche sembra abbiano avuto anche una forte presa tra gli elettori maschi “latinos” e afroamericani. Comunità s cui Harris scommetteva per la vittoria. Resta poi un altro dato, che Trump è riuscito a ribaltare il risultato contro due donne. E questo indica che evidentemente la sua modalità di azione è particolarmente efficace contro un candidato dell’altro sesso.
L'economia
A convincere gli elettori è stato senza dubbio anche il fattore economico. Non è un mistero che l’opinione pubblica Usa, al netto delle grandi battaglie culturali e sociali, al netto di una politica estera estremamente pesante nel dibattito pubblico, guardi al portafoglio per decidere chi votare. E Trump in questo ha saputo far ricadere sulla candidata democratica tutte le colpe della precedente amministrazione. Il tycoon ha saputo fare leva sul disagio degli elettori più poveri come già aveva fatto nel 216. Ha fatto leva sulla tassazione eccessiva, sull’inflazione, sull’occupazione. Ha potuto poi giocare la carta dei numeri della finanza sotto il suo mandato, che in certi periodi videro una Wall Street sorprendentemente galoppante.
L'immigrazione
Inoltre, Trump ha avuto la meglio su uno dei grandi temi, forse il più importante, della sua campagna elettorale da sempre: quello dell’immigrazione clandestina. Tra promesse di rimpatrio, propaganda spesso scioccante (famoso il caso degli animali domestici “mangiati” dagli immigrati), spinta sulla percezione del pericolo nelle città lontane dalla frontiera e accuse contro Harris di non avere fatto nulla sul confine con il Messico quando era lei a gestire il dossier nell’attuale governo dem, il repubblicano ha avuto vita facile. E questo elemento, così polarizzante negli Usa, ha avuto probabilmente un impatto decisivo. Mentre dall’altro lato, Harris non ha potuto fare altro che dimostrare i dati dell’amministrazione di cui faceva parte, difenderne i risultati e promettere di fare di più smentendo allo stesso tempo i presunti dati forniti dal tycoon.
Il profilo del tycoon
Del resto, Kamala si è trovata in un ruolo potenzialmente facilmente ma anche molto complicato. Trump è un personaggio decisivo, polarizzante, fortemente criticato e che non piace ai media e al mondo delle grandi multinazionali, così come dell’intrattenimento e della cultura. Ma allo stesso tempo, la dem ha avuto il grosso handicap di dovere difendere i risultati del governo Biden mentre doveva far capire agli lettori, specialmente gli indecisi, perché lei avrebbe fatto meglio. Di fronte a un repubblicano che ha scommesso sempre e solo sui suoi temi-cardine (immigrazione, inflazione, tasse e leadership), per la democratica ha pesato non solo l’essere una neofita della corsa per la Casa Bianca contro un uomo che ha giocato per tre volte questa partita, ma anche essere fortemente legata a Biden. Cosa che nella propaganda del tycoon l’ha resa complice del presidente. Trump ha fatto il possibile per unificare le due figure, per non farle mai apparire diverse. E questo è stato molto utile, anche per quanto riguarda l’altro tema, quello della politica estera.
La scena internazionale
Nella scelta degli elettori, l’agenda internazionale non sembra avere avuto un peso molto rilevante. Eppure, Donald e il suo vice, J.D. Vance, hanno da subito messo in chiaro che loro non avrebbero proseguito nello schema Biden. Sull’Ucraina, una guerra che all’elettorato americano (come a quello europeo) piace sempre meno, Trump ha avuto da sempre parole molto chiare, anche irriverenti verso Volodymyr Zelensky. La sua volontà di far vedere di essere un leader forte e molto duro e schietto capace di dialogare con Vladimir Putin è piaciuta a tutto il blocco trumpista della prima ora, ma i risultati del campo di battaglia hanno iniziato anche a rovinare il supporto verso l’agenda di Biden e Harris.
Sul Medio Oriente, Harris si è trovata a gestire un Partito completamente spaccato tra il supporto a Israele e l’ala più radicale, più giovane e dell’elettorato arabo e musulmano molto critica verso l’azione di Biden per Gaza e i vari fronti di guerra. Il tycoon non ha mai avuto dubbi su quel fronte, ricordando anche il suo successo legato agli Accordi di Abramo per il riconoscimento dello Stato ebraico da parte dei vicini arabi. E in tutto questo, Trump ha fatto di nuovo leva sull’altro grande cruciale della sua politica estera, quello dei rapporti con la Nato. The Donald ha solleticato ancora una volta la pancia degli elettori con l’idea che Washington non può garantire la sicurezza di alleati che non pagano o che hanno una bilancia commerciale sfavorevole agli Usa. Ha soffiato sul fuoco isolazionista che cova nel mondo repubblicano ma anche in quello degli indecisi o degli indifferenti. E questo è piaciuto a molti, specie al mondo operaio o conservatore.