«Make Roma great again», dice Antonello Venditti, citando accanto al sindaco dem Roberto Gualtieri, che gli consegna la Lupa Capitolina, quel «make America great again» che negli Usa ha fatto la fortuna di Donald Trump. Eccolo, il sogno di Antonello Venditti: rendere Roma, la sua città, di nuovo grande. E non è un caso, allora, che come colonna sonora della speciale giornata che gli ha dedicato ieri il sindaco della Capitale, quando ha spalancato a lui e a un gruppo di alunni del suo ex liceo Giulio Cesare (quello della canzone) le porte del Campidoglio per consegnargli il massimo riconoscimento che la città riserva ai suoi cittadini più illustri con il merito di «essere stato voce di Roma con i suoi capolavori, abbracciando diverse generazioni», il 75enne cantautore abbia scelto quella Ho fatto un sogno che compose nel 1997 insieme a Ennio Morricone e Sergio Bardotti. Venditti, che a coronamento dei festeggiamenti del quarantennale dell’album Cuore e di Notte prima degli esami il 19 novembre pubblicherà il libro fotografico Fuori fuoco (Rizzoli, 244 pagine nelle quali ripercorre la sua vita di uomo e artista dal bullismo subito in adolescenza a oggi, passando per il Folkstudio e l’amicizia con Lucio Dalla e Francesco De Gregori), ha donato in cambio al primo cittadino il suo iconico cappello: «È il simbolo della mia vita, dove lo appoggio è casa mia, lo consegno al sindaco come segno d'amore per tutti i romani», ha detto.
Cos’ha di particolare “Ho fatto un sogno” rispetto a “Roma Capoccia”, “Roma Roma” o “Grazie Roma”?
«Ha dentro me, Roma, il grande Morricone, il maestro Serio, che diresse l’orchestra, il sindaco Rutelli. La scrissi per coloro che amano la città pur non essendo romani. Roma è amata in tutto il mondo. Per questo dico che dovremmo rispettarla di più».
Da qui lo slogan «Make Roma great again»?
«Sì. Mi riferisco a noi romani. Dobbiamo tutti, ognuno nel suo piccolo, fare qualcosa per Roma. Io lo faccio attraverso le canzoni. E alla nostra città dedico questo premio: glielo restituisco, per tutto quello che mi ha dato».
L’ha salvata molte volte, del resto: «Dopo la separazione con Simona Izzo volevo farla finita. Fu Dalla a salvarmi, quando tornai da Milano e mi trovò casa a Trastevere», raccontò. Oggi che rapporto ha con la sua città?
«Viscerale. Roma è un luogo dell’anima. È una città consolatoria. Come se fosse una persona fisica. Qui non sei mai solo: sei circondato di bellezza, di religiosità, di umanità. Io amo Roma in tutte le sue forme. La amo anche nei difetti. Come le buche».
Si candida a fare da Cicerone ai turisti che arriveranno per il Giubileo?
«No, no (ride). Non ne hanno bisogno. Ma Roma non è solo la cristianità: quella è solo una parte di questa grande città. Un concerto al Circo Massimo? No, quello è un santuario: bisogna rispettarlo».
I suoi iconici raduni nell’ex stadio romano rivivono nelle foto di “Fuori fuoco”: perché l’ha intitolato così questo libro?
«Perché è fatto di corsa: una foto mossa. Sono in tour da tre anni. L’ho scritto a rate».
Si ferma, dopo aver spinto così tanto sull’acceleratore?
«No. Andrò avanti ancora con i festeggiamenti di Cuore e Notte prima degli esami almeno fino all’estate prossima».
Se non al Circo Massimo, torna a cantare all’Olimpico allora?
«Neanche. A 75 anni non sono un fan del gigantismo. Tornerò a Caracalla».
Non è arrivato tardi questo riconoscimento?
«No. È che oggi sono più disponibile a ricevere premi. Prima non ci pensavo, non mi interessava: alla fine il vero premio rimangono sempre le canzoni. Oggi vorrei essere ricordato però per un’altra cosa».
Ovvero?
«La battaglia per far riconoscere la musica popolare nella Costituzione. C’è bisogno di leggi che tutelino gli artisti. La musica fa un sacco di morti: i ragazzi vincono un talent, poi vanno in depressione. Quando la musica avrà la sua dignità di arte tante cose cambieranno».
Tra i tanti artisti emersi a Roma in questi anni c’è un nuovo Venditti?
«Non c’è testamento (ride). Ognuno ha una sua panchina: esistono tante realtà che messe insieme fanno Roma. Poi però arrivo io e li metto insieme tutti».
Per la Roma è un momentaccio, non trova?
«Ma dopo tutti i momentacci arrivano momenti migliori».
Ora tocca a Claudio Ranieri. Come lo vede?
«È un mio amico fraterno: può bastare?».
Alla squadra manca della romanità?
«Non c’entra. Abbiamo vinto cose importanti con Liedholm e anche Viola non era romano. Incarni la romanità anche se sei di Milano o Hong Kong. Che poi è quello che canto in Ho fatto un sogno: “È calda la sua mano e quando ti accarezza, ti fa suo, ti fa romano”».