Chi l’avrebbe mai prevista, questa eterogenesi dei fini. Nasci per aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, muori – o almeno, tentano di ucciderti – con la più rodata tra le liturgie di quella che i protagonisti di questa storia un tempo avrebbero chiamato «vecchia politica»: il libro di fine anno di Bruno Vespa. Ma in fondo tra i due “Giuseppi” del Movimento, Beppe Grillo e “Beppe” Conte, è sempre stato così. Tanto sanguigno il primo quanto felpato il secondo. Dal “vaffa” alla pochette, andata senza ritorno: è la cronaca di un divorzio annunciato, quella che va in scena in queste ore in casa Cinquestelle.
Un benservito al fondatore che molto presto potrebbe essere sancito, oltre che con l’addio a fine anno al contratto da 300mila euro che il Movimento per una non meglio precisata cura della “comunicazione”, pure con un cambio di simbolo. E con una revisione (leggi: azzeramento) dei poteri del Garante varato dalla Costituente in corso.
C’eravamo tanto amati, anzi no. Perché al netto delle smentite di rito, delle paci (sempre traballanti) sancite ora all’hotel Forum, ora davanti alla spigola del “Bolognese”, il ristorante prediletto dell’Elevato a Marina di Bibbona, tra i due l’incomunicabilità è sempre stata umana, prima ancora che politica. Insulto fulminante (“vaffa”, “pennivendoli”, “zombie”, “ebetino” e chi più ne ha) contro compassato stile scuola Dc, vis comica contro ars affabulatoria. Fino all’epilogo. Quando Grillo denuncia le «manovre striscianti» dell’ex premier per prendersi il M5S e Conte si lancia in un’arringa a base di «malleveria» e «concezione dominicale» del fondatore.
Non che in passato i due se le fossero mandate a dire. Nel 2021, quando l’avvocato di fatto prese in mano il Movimento, il comico lo accusò di mancare di «visione politica» e di «capacità manageriali». «Non ha esperienza di organizzazioni, né capacità di innovazione». L’altro apostrofò il Garante come un «padre padrone» che avrebbe fatto meglio a fare il «genitore amorevole». Ma si sa, è il classico di ogni parricidio: un “figlio” che reclama il suo turno al comando e un padre che s’impone per continuare a dettare legge. E che infine per ricondurre l’erede a più miti consigli ricorre al vecchio adagio: come ti ho fatto, ti disfo. Del resto Grillo ha sempre rivendicato di averlo “fatto” lui, Conte. Eccolo da Fazio, un anno fa: l’avvocato? «Siamo stati io e Di Maio a sceglierlo (nel 2018 come premier del governo giallo-verde, ndr). Era un bell'uomo, laureato, parlava inglese, non si capiva niente quando parlava... Perfetto per la politica!».
Altro scambio di carinerie, dopo le Europee. Quando i 5S precipitano sotto il dieci per cento e Grillo, che ancora coi suoi rivendicava la traversata a nuoto dello stretto di Messina prima dell’exploit alle regionali siciliane 2013, colpisce: «Ha preso più voti Berlusconi da morto che Conte da vivo».
L’ULTIMO ATTO
Triste, solitario e un po’ final, il fondatore, abbandonato in massa dalle truppe parlamentari contizzate in trepidante attesa che cada anche l’ultimo tabù, il divieto di terzo mandato. I fedelissimi se ne sono andati quasi tutti: molti fuoriusciti con la scissione di Di Maio, Dibba fuori dai confini M5S, Raggi di fatto ininfluente (per non parlare di altri ex big come Toninelli). Il contratto da 300mila euro stracciato, che punge sul vivo il fondatore (Grillo darà battaglia: «I miei compensi – aveva tuonato poche settimane fa – sono non solo congrui per la mia funzione e i relativi costi, ma a maggior ragione nel momento in cui è in corso un tentativo di stravolgere l’identità e i valori del Movimento») è il penultimo atto di un finale già scritto. Il prossimo potrebbe essere la cacciata. Finale che Davide Casaleggio, il figlio dell’altro fondatore Gianroberto, prevede così in una battuta: «Conte e Grillo? Ne resterà soltanto uno, sì. Ma di elettore». Ecco il titolo: Uno, nessuno e trecentomila.
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