Dopo la morte di Yahya Sinwar e prima che la situazione sul campo degeneri irrimediabilmente. Quando le macerie dei quartieri sciiti a sud di Beirut fumano ancora e dove i militari italiani della missione Unifil si tengono al riparo nei bunker dalle iniziative imprevedibili dell’Idf. Giorgia Meloni è stata la prima leader mondiale a recarsi in Libano dal momento in cui Israele ha trasformato in un campo di battaglia una buona fetta del territorio oggetto della risoluzione 1701 dell’Onu.
Nel Paese dei cedri, dalla collina da cui domina il palazzo de le Grand Sérail, la premier ha quindi provato a tracciare ancora una volta la linea rossa entro cui Benjamin Netanyahu deve sapersi fermare. «Tutti i partner devono garantire la sicurezza di questi soldati» chiosa parlando dei militari Unifil e preparandosi ad una nuova e complessa conversazione telefonica con “Bibi” che annuncia per i prossimi gironi.
Le direttrici del viaggio compiuto da Meloni sono però più ampie di un appello per la de-escalation rivolto a Tel Aviv dopo l’uccisione del comandante di Hamas che «può offrire la finestra per una stagione nuova, una finestra che deve essere colta da parte israeliana». E si muovono lungo la convinzione che la missione Unifil vada «rafforzata mantenendo la sua imparzialità» perché «solo così si potrà voltare pagina». Ma pure attraverso la garanzia che l’Italia «sarà pronta a fare la propria parte» se le verrà chiesto di aumentare il proprio contingente. Tracce che Meloni, dopo aver incassato l'adesione del Libano alla proposta di cessate il fuoco per 21 giorni avanzata un mese fa da Usa, Ue e tre Paesi arabi, prova ad incardinare nel suo ruolo di presidente del G7. Un ruolo che in Giordania, dov’è volata subito dopo il Consiglio europeo, ha provato ad incarnare ampliando i canali di dialogo con il re Abdullah II, a cui riconosce una leadership moderata e quindi cruciale nello scacchiere, e con cui condivide la necessità di sforzi comuni per un cessate il fuoco a Gaza e per il rilascio degli ostaggi israeliani.
Il fulcro del viaggio è però un centinaio di chilometri più a nord di Aqaba. A Beirut dov’è “costretta” a recarsi dalle strettissime misure di sicurezza, bypassando le basi militari italiane dove si recò a marzo scorso, quelle che con Unifil presidiano la linea blu e con la missione bilaterale Mibil supportano l'esercito libanese. Nella capitale però, prima del primo ministro uscente Najib Mikati e del presidente per l’assemblea nazionale Nabih Berri (esponente di Amal, forza politica considerata prossima a Hezbollah), Meloni incontra i vertici del nostro contingente, ai quali affida il suo messaggio di vicinanza e solidarietà.
IL MESSAGGIO
A margine dell’incontro con i rappresentanti di un Paese sull’orlo della guerra, Meloni spiega però soprattutto come «Non abbiamo altre armi se non la diplomazia: se non riusciamo a farci ascoltare e ad ascoltare i nostri interlocutori, la diplomazia non si riesce ad esercitare». Un messaggio che Mikati (lo stesso che pochi mesi fa confuse Meloni con la sua segretaria accogliendo la delegazione italiana ai piedi dell’aereo) pare aver colto. Poche ore dopo aver respinto «l'interferenza» iraniana «negli affari libanesi», il libanese implicitamente prende le distanze da Hezbollah affermando che «il futuro» del suo Paese risiede «nella dissociazione dai conflitti che sono intorno». E indica come priorità fermare gli attacchi di Israele ai civili e la distruzione delle cittadine e delle località libanesi nel sud del Libano. Grossomodo le stesse offensive «inaccettabili» che minacciano i militari italiani che, conferma Meloni, ora resteranno al loro posto, anche perché «Unifil e Mibil saranno necessari in ogni scenario post-conflitto».
A Mikati e Berri infine, la premier promette di rafforzare la capacità delle forze armate di Beirut, tema al centro anche del G7 Difesa in corso a Napoli. «A sud del fiume Litani non deve esserci altra presenza militare se non quella di Unifil e Lebanese Armed Forces» è la chiosa di Meloni. Mettere in condizione l'esercito libanese di controllare il territorio è infatti considerata una delle chiavi di volta per tenere i guerriglieri di Hezbollah lontani dal confine.